di Lorenzo Fioramonti, docente di economia politica all’Università di Pretoria
C’è sempre più consapevolezza in Europa, tra milioni di persone, imprese di vario tipo e anche esperti economici di varia provenienza, che i fondamentali economici sulla base dei quali si è sviluppata l’Unione Europea vadano ripensati, in particolar modo i parametri che legano il deficit e il debito al Pil. Infatti non si è mai capito, neppure quando il trattato di Maastricht è stato introdotto, all’inizio degli anno Novanta, perché dobbiamo rispettare un parametro del 3% tra deficit e Pil e uno del 60% tra il debito pubblico e il Pil, quando sappiamo benissimo che a livello internazionale la scienza economica non ha raggiunto alcun tipo di consenso su quali siano i parametri che permettono ad un’economia di prosperare e svilupparsi. Anzi, nella storia molti paesi hanno fatto piuttosto bene, hanno creato posti di lavoro, hanno raggiunto sviluppo tecnologico e anche sostenibile attraverso lo sforamento di questi parametri, con il 100% di debito pubblico in alcuni casi.
Il Giappone negli ultimi vent’anni ha accumulato un debito pubblico enorme che però ha consentito a quell’economia di mantenersi in piedi, di svilupparsi in maniera sempre più complessa, di raggiungere un livello di impiego molto significativo, o quasi la piena occupazione, e di restare competitivo a livello internazionale. Quindi non è tanto la questione del parametro fisso, la quantità di debito, e la quantità di deficit, piuttosto la qualità, però nessuno di questi parametri ne ha contezza. In realtà quello di cui abbiamo bisogno è di ripensarli, e di cominciare a ricordarci che il deficit e il debito se utilizzati in maniera strategica e intelligente possono in realtà creare le condizioni per un’economia sostenibile e prospera. E la seconda ragione per cui questi parametri vanno rivisti è il riferimento che hanno in comune al Pil come indicatore di performance economica di un paese. E qui, anche in questo caso, c’è molta convergenza a livello internazionale.
Oggi sappiamo che il Pil non è più come ottant’anni fa un indicatore relativamente idoneo per misurare la performance economica di un paese ma è sempre più anacronistico, le nostre economie diventano sempre più digitali, il modello di industrializzazione sta cambiando, l’investimento nel capitale umano sta diventando sempre più significativo, tutte dimensioni che il Pil non riesce a misurare in maniere coerente ed efficiente. E poi sappiamo benissimo che, anche qui, non è tanto la quantità di Pil ma la qualità di Pil. Si può creare Pil attraverso la distruzione dell’ambiente, attraverso la cementificazione di un paese, attraverso le guerre, e l’insicurezza, e le diseguaglianze, si può creare Pil attraverso l’educazione, l’investimento sulle persone e sul futuro sostenibile di una nazione. Quindi, anche in questo caso un parametro fisso ha poco senso.
Abbiamo anche bisogno di un discorso europeo diverso; in questo caso l’Italia può davvero farsi portavoce di un vento di cambiamento. Abbiamo bisogno di ritornare a capire che anche il denaro che utilizziamo ha un senso rispetto a un modello di sviluppo particolare, ed è sempre più chiaro che un sistema monolitico come quello dell’euro è anacronistico nel XXI secolo. Oggi le tecnologie consentono la creazione di valute locali, di cripto valute che diventano valute globali e sfidano le valute stampate dagli stati nazione, quindi in un contesto così diversificato dove la flessibilità è fondamentale per creare benessere e competitività, avere un sistema centralizzato, monolitico in cui paesi con contesti molto diversi, con economie così diverse, devono tutti utilizzare gli stessi parametri monetari diventa anche in questo caso non solo uno svantaggio, ma anche un elemento del passato rispetto alla possibilità di creare davvero un futuro migliore.
E quindi c’è bisogno di rivedere i parametri fondamentali, c’è bisogno di recuperare una capacità di programmazione che oggi, un sistema monolitico come quello dell’euro, non consente, c’è bisogno di diversificazione, c’è bisogno di recuperare una prospettiva di sviluppo per l’Europa che alcuni di questi parametri stanno ingabbiando in un contesto totalmente diverso rispetto a quello in cui erano stati sviluppati. E questo cambiamento può venire dall’Italia, perché con una visione e una narrativa diversa è possibile convincere tanti altri paesi europei che sono sempre meno persuasi della validità di questi parametri che il momento del cambiamento è oggi e che è possibile davvero creare un’economia europea che è molto più in linea con i nostri desideri, con le nostra aspirazioni, con i nostri valori.