“Per esprimere un giudizio più completo e meditato, sulla riforma del Senato, occorrerà attendere il testo che dovrebbe essere depositato il 3 luglio, per ora abbiamo solo le anticipazioni della proposta su cui riflettere, e le cui linee essenziali si sembra di poter riassumere in questo modo:
– riduzione a 100 parlamentari, di cui 5 nominati dal Presidente della Repubblica (non più a vita ma per 7 anni) 21 eletti fra i sindaci e 74 fra i consiglieri regionali, in proporzione alla popolazione di ciascuna di esse
– i senatori non saranno eletti a suffragio diretto, ma in secondo grado, da parte delle assemblee regionali
– il Senato perde il potere di dare la fiducia al governo e di esprimersi sulla legge di bilancio, ma mantiene il potere di esaminare ogni legge della Camera (se lo chieda un quinto dei componenti l’Assemblea) e rinviarla alla Camera. Nel caso di leggi riguardanti poteri degli enti locali, la Camera dovrà poi decidere a maggioranza assoluta (non sappiamo se dei componenti o dei votanti. Comunque, le riforme costituzionali debbono passare per il voto deliberativo del Senato.
– i senatori parteciperanno nel Parlamento in seduta comune all’elezione del Presidente della Repubblica, dei giudici costituzionali e dei membri laici del Consiglio Superiore della magistratura
– i senatori non saranno retribuiti ma dovrebbero godere dell’immunità parlamentare
Questo progetto è il prodotto dell’attività istruttoria della Commissione Affari Costituzionali del Senato sul precedente progetto presentato in aprile dal governo. Salvo una improvvisa e, per ora, non prevedibile rottura fra Pd, Fi e Lega o di incidenti di percorso in aula, è estremamente probabile che la riforma del Senato si farà, per cui conviene concentrarsi sulla possibilità di emendarla.
E’ condivisibile il superamento del bicameralismo perfettamente paritario, lasciando il potere di fiducia e gran parte del potere legislativo alla Camera, vice versa suscitano forti perplessità altri aspetti di cui il principale è sicuramente l’elezione di secondo grado. In questo modo, una delle due camere non è più espressione della volontà degli elettori, ma un affare del ceto politico e delle sue mediazioni interne. Certamente: i consiglieri regionali sono a loro volta eletti a suffragio diretto, ma questo non toglie che il passaggio ad una elezione indiretta e di secondo grado, rende il nuovo Senato espressione non del corpo elettorale ma della casta politica. Questo tratto oligarchico era meno rilevante nel testo originario del governo, perché si trattava di un Senato che aveva competenze meramente residuali che, per quanto non irrilevanti (in particolare elezione del Presidente e di due giudici costituzionali, potere di rinvio alla Camera dei testi di legge), erano interventi sporadici; vice versa, l’aver restituito alcune competenze, ed, in particolare, il potere di intervento nelle leggi di riforma costituzionale, rende molto rilevante il carattere non elettivo del Senato. In definitiva, in questo modo, stiamo rimettendo il potere di modifica della Costituzione ad una mezzadria fra una assemblea elettiva ed una non elettiva pura espressione del ceto politico.
Il secondo rilievo di carattere generale, su questa origine regionale del Senato, riguarda gli effetti sistemici che questo potrà avere. In questo modo il Senato diventa una sorta di “conferenza Stato-Regioni” che, però, consegna nelle mani delle Regioni una sorta di potere ostruzionistico nei confronti dell’altra Camera attraverso il potere di rinvio. La Camera, in questo modo, diverrebbe una sorta di “ostaggio” nelle mani delle autonomie locali. Inoltre, il gruppo dei delegati regionali acquisisce un potere contrattuale non indifferente nell’elezione dei giudici costituzionali, che sono quelli destinati a dirimere le controversie fra poteri dello Stato e, dunque, fra Stato e Regioni.
In questo modo, il legislatore sta ponendo le premesse di una sorta di “sindacato delle autonomie locali” dotato di poteri di veto o condizionamento del processo legislativo e di elezione delle alte cariche dello Stato. E questo è tanto più rilevante ove si consideri l’abolizione della legislazione concorrente Stato-regioni ed il ritorno di una serie di materie allo stato centrale; quel che è facile prevedere, sconterà una reazione da parte dei ceti politici regionali alla ricerca di una compensazione.
E dunque, sia il carattere non elettivo che la fonte regionale del nuovo organo profilano il rischio di rilevanti guasti sistemici. Di qui, un primo emendamento essenzialissimo potrebbe essere quello di ripristinare il carattere elettivo del Senato.
In via subordinata, si può prevedere un carattere parzialmente elettivo di questa assemblea (riservando un terzo o, al massimo, la metà dei seggi all’elezione indiretta). In via ulteriormente subordinata, si può prevedere che i consiglieri regionali eletti in Senato non siano espressione delle assemblee, ma siano quelli che abbiano ottenuto il migliore collocamento applicando il metodo d’Hondt. E’ vero che i consiglieri regionali non sono eletti per fare i senatori, ma in questo modo, almeno gli eletti avrebbero una pur imperfetta legittimazione.
Secondo tipo di emendamenti: qualora restasse il carattere non elettivo del Senato, occorrerebbe, con emendamento, sottrargli la competenza in materia costituzionale. Sempre in materia di competenze, appare del tutto discutibile che i senatori di provenienza regionale si sommino ai 58 già previsti dalla Costituzione per l’elezione del Presidente della Repubblica. In questo modo, avremmo un’ingiustificata duplicazione che, fra l’altro, porterebbe la quota regionale a 132 membri su 730, cioè il 18% del collegio elettorale presidenziale, contro l’attuale 5,6%.
Pertanto, un emendamento potrebbe prevedere l’abolizione della partecipazione dei senatori all’elezione del Presidente, sia perché si giustificherebbe poco quella bizzarra partecipazione di un manipolo di sindaci, sia perché appare poco convincente che la quota di membri non elettivi o eletti in secondo grado, salga dall’attuale 6-7% a ben il 21,6% del collegio elettorale per il Capo dello Stato.
In via subordinata, qualora fosse confermata l’elezione del Parlamento in seduta comune, si potrebbe prevedere l’abolizione dei 58 delegati regionali, attualmente previsti.
Analoghe considerazioni possono essere fatte per l’elezione di giudici costituzionali; sarebbe preferibile che:
– nel caso di un Senato elettivo fosse affidata esclusivamente al Senato (così come i membri laici del Csm), nel quadro di un Senato dei controlli e delle garanzie costituzionali
– nel caso di un Senato non elettivo, sia affidata alla sola Camera, essendo del tutto non desiderabile l’intervento in materia di una assemblea non elettiva e, per di più interessata direttamente a condizionare l’elezione di giudici che dovrebbero poi occuparsi di un contenzioso come quello fra Stato e Regioni.
Ancora di più queste considerazioni valgono per il Csm per il quale non si comprende quale legittimazione possa avere un’assemblea non elettiva che, per di più, non ha competenza alcuna in materia di giustizia ed ordinamento giudiziario. Per di più, occorre considerare un particolare sin qui poco osservato e connesso al problema dell’immunità parlamentare. Ovviamente, non c’è ragione di sostenere che i consiglieri regionali o i sindaci siano vocati costitutivamente alla corruzione più dei parlamentari; il problema non è questo. Il problema è che i consiglieri regionali (ed ancor più i sindaci) sono molto più direttamente legati all’amministrazione di quanto non lo siano i parlamentari, che se non sono sottosegretari, ministri o, almeno, presidenti di commissione, hanno assai minore capacità di decisione o influenza sulla spesa. Ne consegue che i consiglieri regionali e, soprattutto, i sindaci sono la “prima linea” sul fronte della corruzione. Anche un consigliere regionale che non sia assessore è molto più prossimo al centro decisionale di spesa ed è quindi più esposto alle offerte corruttive. Sin qui non c’era ragione di distinguere fra deputati e senatori, perché il loro rapporto con i centri di spesa era lo stesso, ora il problema cambia.
Tuttavia, l’occasione è propizia per riesaminare la questione nel suo complesso. L’immunità parlamentare è stata un istituto a tutela dell’indipendenza del Parlamento dagli altri poteri dello Stato ed ha assolto ad una funzione importante nel radicamento della Democrazia. Tuttavia, non si può non notare che, negli ultimi quaranta anni, se ne è fatto un uso ignobile che ha coperto il sistematico latrocinio di una classe politica sempre più indecente. Il Parlamento si è comportato in modo corporativo, proteggendo ogni suo membro (salvo rarissime eccezioni) anche quando di fumus persecutionis non c’era manco l’ombra.
Dunque, la materia va rivista e non solo per i Senatori, ma anche per i Deputati. Sembra opportuno distinguere fra due diversi provvedimenti giudiziari:
a- l’iscrizione nel registro degli indagati, le indagini, comprese le intercettazioni, il rinvio a giudizio, il dibattimento processuale e la sentenza finale
b- le misure restrittive della libertà personale (arresto e carcerazione preventiva, esecuzione di una sentenza di condanna)
Nel primo caso è auspicabile il superamento dell’attuale assetto, consentendo alla magistratura di fare il suo corso senza alcun tipo di autorizzazione, che, fra l’altro, vanificherebbe qualsiasi segreto istruttorio (che senso ha intercettare una persona se prima si è dovuta chiedere l’autorizzazione che la mette sull’avviso?).
Vice versa la cosa va vista con molte più cautele per il secondo tipo di provvedimenti (cui aggiungerei anche le perquisizioni) che limitando la libertà personale possono creare anche una lesione del diritto d’Assemblea. In parole povere, facciamo un esempio: c’è una votazione di particolare importanza (fiducia o sfiducia a un governo, legge di riforma costituzionale o elettorale, elezione del Presidente ecc.) e l’esito è incertissimo, dato che si gioca sul margine di uno o due voti; un magistrato non perfettamente disinteressato (ce ne sono o, comunque, potrebbero essercene) arresta due o tre parlamentari, determinando, in questo modo, l’esito della votazione. Nei fatti sarebbe un colpo di Stato. E’ auspicabile correre un rischio del genere? Dunque, almeno per questo tipo di provvedimenti è auspicabile mantenere l’immunità. Ma, dato che, se la decisione fosse rimessa alla Camera di appartenenza dell’inquisito, l’esito sarebbe scontato, si può fare un’altra cosa: istituire un giudice terzo (la Corte Costituzionale o una commissione per le autorizzazioni a procedere, prevista per Costituzione, composta da un rappresentante per ciascuna camera ed un membro designato dalla Corte Costituzionale) che con decisione motivata (insisto: “MO-TI-VA-TA“) autorizzi o meno l’arresto. E questo potrebbe essere un altro emendamento possibile.” Aldo Giannuli