C’erano una volta un inglese e un italiano

La Gran Bretagna fa parte dell’Unione Europea. Ha negoziato condizioni speciali per via delle sue specificità, i vincoli economici imposti dall’UE – infatti – non hanno mai convinto gli inglesi. Né tantomeno l’adozione della moneta unica a cui sono ben lungi dall’aderire. Ora si parla addirittura di Brexit, ovvero della definitiva uscita dal progetto europeo di una delle maggiori potenze economiche e industriali del blocco. Il tutto perché i cittadini del Regno Unito percepiscono le istituzioni comunitarie come un blocco al benessere e alla prosperità del loro Paese; vedono ciò che sta accadendo ai partner europei che crollano sotto i colpi della Troika e si stanno chiedendo se veramente valga la pena rimanere in questa Unione. Agli occhi dell’Italia la musica che arriva da oltremanica è a dir poco paradossale: gli inglesi, che già non adottano l’Euro, vogliono davvero l’esclusione del Regno Unito dai progetti di una UE futura sempre più coesa e compatta attorno all’economia tedesca? E al contempo, vorrebbero tutelarsi come area al di fuori dell’eurozona ma comunque meritevole di protezione per la sua condizione di outsider monetaria? Incredibile, vero? No, diciamo noi. Perché gli inglesi sono stati capaci di tutelare il loro Paese dal Trattato di Maastricht in poi e, ora, hanno la possibilità di fare un ulteriore step.

Tuttavia, il punto non è se la Brexit diverrà realtà o meno. Piuttosto, è bene tornare a comprendere come si dovrebbe comportare uno Stato sovrano nei confronti dell’UE. L’Italia, da tutti i punti di vista, deve pretendere uno Statuto Speciale per le sue specificità a livello economico, monetario, sociale, culturale, produttivo, industriale ed energetico. Lo deve fare nel più breve tempo possibile, per tornare a garantire ai suoi cittadini i diritti riconosciuti dalla nostra Costituzione. Non fatevi ingannare dalle sirene secondo cui l’attuale Governo sarebbe riuscito ad ottenere la flessibilità sperata, la lettera della Commissione Europea è stata chiara. Pochissime deroghe a pegno di sforzi nel 2017: probabilmente in cambio dell’aumento dell’IVA e di altri tagli alla sanità, alle pensioni e ai servizi.

Gran Bretagna e Italia, in questo momento, hanno in comune la retorica della paura che accompagna ogni possibile scelta democratica dei cittadini. Perché il copione dell’Unione Europea, che si muove a turno secondo gli attori della Troika (FMI, Commissione Europa, BCE), è ogni volta il medesimo. Ce lo ricorda Ambrose Evans-Pritchard sul Telegraph (traduzione di Voci dall’Estero), citando proprio la disonestà intellettuale del Fondo Monetario Internazionale.

“Se il Fondo Monetario Internazione e i suoi fiancheggiatori volevano scoraggiare dall’accostarsi alla Brexit chi è ancora indeciso, hanno sicuramente fallito. Dopo avere ascoltato le loro irritanti prediche, sono più incline a optare per la sfida, perché la loro maschera di obiettività è caduta. Non ci può più essere alcun dubbio sul fatto che stanno facendo un gioco politico con l’autodeterminazione democratica di questo paese. Il Fondo scopre il suo gioco al punto 8 dell’articolo IV delle sue conclusioni sull’economia del Regno Unito, dove si afferma che “il costo di un’assicurazione contro il default sovrano del Regno Unito è raddoppiato (anche se a partire da un livello basso)”. Qualsiasi persona normale che non segue il mercato dei derivati lo interpreterebbe come un segnale sinistro da parte degli investitori globali. Certo, il prezzo dei credit default swap sul debito UK a 5 anni – l’indicatore che usiamo tutti – ha fatto un salto da 17 a 37 dalla fine dell’anno scorso. Ma il Fondo monetario ha trascurato di ricordare che c’è stato un salto da 15 a 33 in Svizzera, da 26 a 43 in Francia, da 45 a 65 in Corea. Questo salto non ha praticamente nulla a che fare con la Brexit, e il FMI lo sa perfettamente. Il suo stesso mentore e a lungo capo economista del FMI, Olivier Blanchard, il mese scorso mi ha detto che non vi era alcun rischio di una crisi del debito sovrano, né di attacco ai titoli, né di un arresto improvviso di alcun tipo. “Il finanziamento sarà più difficile dopo la Brexit? Gli investitori valuteranno il governo britannico come più a rischio? Non penso proprio”, ha dichiarato. Il professor Blanchard, che recentemente si è dimesso dal Fondo ed è libero di dire come la pensa, afferma che ci può essere un prezzo da pagare per la Brexit, ma è impossibile da calcolare.
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Quello che è chiaro è che le conseguenze terribili prospettate successivamente dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama, dal Tesoro, dall’OCSE, dalla Banca d’Inghilterra, e dal Fondo monetario internazionale si verificherebbero solo se i paesi leader a livello mondiale decidessero di attivarsi proprio per provocare il caos che dicono di paventare”.

Vi ricorda qualcosa? È la stessa retorica della distruzione adottata in Italia ogniqualvolta si mettono in discussione le politiche economiche imposte dall’UE. Parliamo della famosa rinegoziazione dei Trattati, visti dagli eurocrati al pari della Sacra Bibbia per i cristiani. E su questo mantra abbiamo subito di tutto: Fiscal Compact, Bail-in, MES, Unione Bancaria, moneta unica, vincolo di cambi fissi e, naturalmente, tutti i Governi fantoccio imposti da Bruxelles. Un commissariamento sulla falsariga della Grecia. Se ne sono accorti tutti a livello internazionale e, forse, iniziano ad accorgersene anche gli italiani. Sempre Ambrose Evans-Pritchard sul Telegraph (traduzione di Voci dall’Estero), inquadra i problemi del Bel-Paese.

“L’Italia sta esaurendo il tempo a disposizione, dal punto di vista economico. Dopo sette anni di espansione globale, che si sta esaurendo, il paese è ancora bloccato nella deflazione del debito e in una crisi bancaria che non è in grado di affrontare dentro i vincoli paralizzanti dell’Unione Monetaria. Gli ipotetici risparmi provenienti da una drastica austerità fiscale – i tagli negli investimenti pubblici – vengono schiacciati dalla inesorabile aritmetica dell’effetto denominatore. Il rapporto debito/pil era 121 percento nel 2011, 123 nel 2013, 129 nel 2013. Quest’anno l’incremento si è quasi appiattito, restando sul 132,7 percento, aiutato da un euro debole, petrolio ai minimi, e dalla polverina magica del quantitative easing di Mario Draghi. Questo triplo stimolo si sta però esaurendo prima ancora che il paese esca dalla trappola della stagnazione. Il Fondo Monetario Internazionale si aspetta una crescita di appena l’1 percento per quest’anno. La finestra globale, in ogni caso, si sta chiudendo. L’aumento dei salari americani porterà probabilmente la Federal Reserve ad aumentare il tasso d’interesse, e la speculazione selvaggia spingerà certamente la Cina a limitare il suo boom di credito. L’Italia a quel punto cadrà di nuovo in recessione – forse all’inizio del prossimo anno – con tutti gli indicatori macroeconomici ad un livello peggiore di quanto fossero nel 2008, e con metà del paese pronto a una rivolta politica.
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Il Fiscal Compact concordato con l’UE obbliga l’Italia ad accumulare surplus primari abbastanza grandi da tagliare il 3,6 percento del rapporto debito/PIL ogni anno per vent’anni. Vi viene da ridere o da piangere?

La storia del catastrofico calvario dell’Italia nell’Euro è lunga e complessa. Il paese aveva un ampio surplus commerciale con la Germania a metà degli anni ’90, prima che i tassi di cambio fossero fissati definitivamente. Erano i tempi in cui si poteva ancora recuperare competitività e reddito con la svalutazione della moneta, per la grande irritazione delle camere di Commercio tedesche. Basti dire che l’Italia ha perso il 30 percento di competitività in termini di costo del lavoro per unità di prodotto rispetto alla Germania nel corso degli ultimi quindici anni, in parte perché la Germania ha compresso essa stessa i salari per guadagnare una marcia rispetto agli altri, ma anche perché la globalizzazione ha colpito i due paesi in modo differente. L’Italia è inciampata su un “cattivo equilibrio”. La sua produttività è scesa del 5,9 percento dal 2000, un crollo spaventoso. Parlare di colpe non serve a nulla. La critica antropologica all’Unione Monetaria Europea è sempre stata che non sarebbe riuscita a mettere assieme paesi europei così diversi e spesso contrastanti, con culture eterogenee, entro un’unico recinto – e infatti non ci è riuscita.

Puoi dare la colpa a questo o quel governo italiano, ma l’unica questione rilevante oggi è che l’Italia ora non riesce a uscire dalla trappola. Gli sforzi per riguadagnare competitività tramite svalutazione interna non fanno altro che peggiorare la dinamica del debito e prolungare la depressione. Il risultato, che abbiamo davanti ai nostri occhi, è l’implosione industriale. In questa miscela altamente infiammabile dovete poi aggiungere la crisi bancaria, che espone ulteriormente il carattere disfunzionale dell’unione monetaria, e che sta peggiorando di giorno in giorno. Si tratta del valore più alto nel G20, sebbene alcuni dicano che il dato per la Cina sia molto vicino. Le banche devono ancora depennare 83,6 miliardi di euro di crediti in sofferenza. Non lo hanno ancora fatto per un motivo. Il loro coefficiente patrimoniale è troppo basso, di qui i timori per una ricapitalizzazione forzata e del bail-in secondo le nuove normative europee.
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L’Italia è ora nella peggiore delle condizioni possibili. Non può intraprendere azioni normali da paese sovrano per stabilizzare il sistema bancario a causa delle interferenze e delle regole europee, e d’altra parte non c’è alcun sistema bancario europeo degno di questo nome, o sistema di assicurazione dei depositi condiviso, su cui scaricare i pesi. “Saremo seriamente nei guai se ci sarà un’altra recessione”, ha detto Codogno”.

Un’ Europa diversa, quella vera, che rispetti le peculiarità e i diritti di ogni singola nazione che vi appartiene, è possibile. La Gran Bretagna darà probabilmente il primo scossone, indipendentemente dal risultato del referendum nel Regno Unito.
L’Italia, ma soprattutto gli italiani, saranno pronti al cambiamento?