di Aldo Giannuli
Non appartengo alla cultura pacifista che esclude pregiudizialmente, sempre e comunque, l’uso della forza, anche considero questa eventualità come la misura estrema cui ricorrere, quando ci sia l’assoluta necessità di preservare beni e valori primari, non ci sia nessuna altra strada e ci sia la ragionevole possibilità di raggiungere lo scopo. Ma è questa la situazione in cui ci troviamo di fronte al caso libico?
Lasciamo da parte le questioni di principio e facciamo un ragionamento puramente politico. Da venticinque anni, l’Occidente ha perseguito, con costanza degna di miglior causa, una politica di brutale intervento militare in Medioriente che, fra l’altro, è costata cifre da capogiro e senza precedenti, causa non ultima del vertiginoso debito americano (Prima Guerra del Golfo 1991, Afghanistan 2001, Seconda guerra del Golfo 2003, Libia 2011, senza contare i casi “minori” di Somalia, Sudan, Mali o il ruolo coperto nella guerra civile Siriana) quale è stato il risultato? In nessuno di questi casi è stato raggiunto l’obiettivo di normalizzare la situazione dando vita ad un regime amico dell’Occidente in un paese pacificato. Al contrario, il risultato è stato quello di radicalizzare la reazione islamica e di farci trovare di fronte ad un terrorismo internazionale senza precedenti e con un fenomeno di straordinaria pericolosità come l’Isis, alla destabilizzazione e distruzione di interi paesi da cui partono ondate di profughi che non sappiamo come fronteggiare e senza tener conto dei costi umani in termini di morti, feriti, mutilati eccetera (i morti, come si sa, per i nostri mass media, contano solo se sono bianchi). E la destabilizzazione di area si espande a macchia d’olio e basti pensare alla Turchia.
Non voglio dire che tutte le colpe siano degli occidentali e forse il terrorismo islamista ci sarebbe stato ugualmente, ma di sicuro il bilancio è fallimentare: peggio di così non poteva andare. In una situazione del genere, si immagina che dovrebbe esserci una riflessione molto attenta per chiederci “dove abbiamo sbagliato?”. Invece no, di fronte alla crisi libica (in gran parte prodotta dall’intervento del 2011), la risposta è la solita: bombardiamo. Questa volta ce lo avrebbe chiesto il governo di Tripoli, quello di al-Sarraj, riconosciuto da Europa ed Usa, ma molto poco riconosciuto dai libici e che non controlla neppure la Tripolitania
Un governo fantoccio messo su solo per giustificare l’intervento occidentale. Sappiamo che l’insediamento Jhiadista a Derna è una spina nel fianco per gli approvvigionamenti petroliferi, per il traffico di sbarchi clandestini, per la normalizzazione della Libia. Tutto vero, ma perché il bombardamento dovrebbe essere risolutivo? Bombardiamo per fare che?
In primo luogo sappiamo che la guerra aerea in territori come quello, ha un’ efficacia limitata e non sembra realistico che possa limitarsi a 1 mese. Ma, immaginiamo pure che i bombardamenti riescano ad eliminare fisicamente tutti i 6.000 combattenti islamisti che si stimano esserci, Bene: in primo luogo chiediamoci quanti altri Jihadisti verrebbero fuori in altre parti del Mondo (Europa compresa) per effetto della radicalizzazione che seguirebbe all’ennesimo intervento occidentale in un paese arabo.
Poi è logico che questo produrrà la fuga della popolazione lì raccolta in parte resterà sotto le bombe (a Derna non ci sono solo guerriglieri islamisti) in parte, e se si apriranno i corridoi umanitari chiesti anche da l delegato Onu Kobler, questo determinerà altre masse di rifugiati in fuga.
In terzo luogo, i jihadisti potrebbero spostarsi destabilizzando altre zone o anche altri paesi.
Il tutto per trovarci una Libia ugualmente in preda al caos perché il governi di Tripoli rappresenta si e no sé stesso ed il rischio di una continua guerriglia continuerebbe a rendere precari anche gli approvvigionamento petroliferi. E per questo bel risultato dobbiamo spendere un altro pozzo di soldi ed ammazzare non si sa quanti altri civili? A volte sembra che l’obiettivo di chi pensa queste azioni non sia l’ordine successivo alla guerra ma proprio la guerra in sé.
Questa operazione è stata chiamata “Odissea fulminante“, Bene: attenti a non restare fulminati.