di Marta Grande
È trascorso un anno, un anno senza Giulio. E senza una risposta che abbia almeno il sapore di una verità scomoda, amara. Perché la verità è inafferrabile, inconsistente, invisibile come le mani di chi ha preso la vita di Giulio senza neppure, provare a capire perché. E per chi, soprattutto.
Le torture, la morte, la rabbia, il silenzio, un silenzio tremendo, caparbiamente infiltrato nelle troppe, ridicole versioni proposte, bizantine e contraddittorie, figlie legittime di una strategia di potere così maledettamente uguale a quella di un’epoca che credevamo perduta al punto di farci tremare le vene dei polsi.
Fa orrore, però è così.
Nel paese degli indignati campeggiano striscioni, molti, tutti impressi con quell’ alto tono di giallo, tanto luminoso e forte come la rabbia e l’indignazione per le verità negate, la giustizia tradita, la libertà umiliata .
Hanno la potenza del suono, quelle parole impresse sulla carta e sugli stracci, hanno l’orgoglio di chi chiede sapendo di dover pretendere, di poter reclamare, oltre l’intimidazione del silenzio istituzionale.
Noi non possiamo dire, oggi, se mai sapremo la verità.
Camminiamo a tastoni, ci aggrappiamo alle certezze, a partire dal fatto che Renzi fu il primo capo politico ad incontrare Al-sisi, il leader egiziano, apostrofandolo, senza alcuna esitazione come “grande statista”. La chiamano ragion di stato, quella signora tanto bella ed altera al punto di doversi saper districare tra gli interessi del bel paese all’ombra delle piramidi ed un timido, timidissimo abbozzo di patrio orgoglio.
Reclamare la verità ma con garbo, quel tanto che basta per lasciar intendere che più smorzati di così, i toni, non potevano essere. Lo avrebbe fatto il tempo, il resto del lavoro, la parte più sporca. Dopotutto sono questioni complicate, segreti di stato, servizi, poteri forti, cose grosse che la gente fatica anche solo a seguire e che dimentica presto, prima di ogni altra.
Invece no, noi siamo qui a fare la voce fuori dal coro, a suonare la tromba dei diritti umani nelle orecchie del paese stordito dal sonnifero delle questioni minori.
E che gli interessi, le strategie, i denari vengano dopo, stavolta, magari solo questa, almeno fino a quando qualcuno non verrà a spiegarci perché Giulio, quella sera, non è tornato a casa.
Il mondo cambia veloce, è un fatto. Chi indietreggia è perduto. Gli assetti politici spaventano chi di politica sa, chi comprende il potere oltre il velo comune dell’apparenza.
La giustizia trema, tremano le libertà individuali, che più di ogni altra cosa rischiano di essere tranciate dalla scure di un potere più barbaro, più essenziale, meno attento.
La linea della tolleranza, lo stimolo alla sensibilità, gli stessi diritti umani rischiano di spegnersi, di essere definitivamente preferiti ad altre presunte priorità; timore espresso, fra l’altro, da uno straordinario report di “Human Rights Watch”, secondo cui proprio questa sarebbe la tendenza politica dei tre principali leader mondiali.
Mentre i salotti buoni ospitano dibattiti alienanti sull’idea di stato e di potere, il buon senso suggerisce di partire da casa nostra, dalla civile e democratica Italia, iniziando ad approvare il reato di tortura, presto, il prima possibile. Il paese perbene, quello dei diritti e della giustizia reale, lo pretende.
Vi chiedo, per Giulio, di accendere una candela questa sera alle 19.41, ora esatta in cui il suo ultimo spostamento venne registrato. Il governo ha l’obbligo politico e morale di ottenere risposte, per Regeni e per tutti noi. Per il diritto alla vita negato ad un giovane uomo, per il diritto alla verità che un intero paese merita di vedersi riconosciuto.