di Enrico Piovesana, giornalista e analista dell’Osservatorio sulle spese militari italiane (MILX) Secondo i dati contenuti nel primo rapporto annuale sulle spese militari italiane presentato dall’Osservatorio MILX, l’Italia spende ogni anno per le sue forze armate oltre 23 miliardi di euro (64 milioni di euro al giorno), di cui più di 5 miliardi e mezzo (15 milioni al giorno) in nuovi armamenti. Una spesa militare in costante aumento (+21% dal 2006), che rappresenta l’1,4% del PIL nazionale: esattamente la media NATO (USA esclusi), ma ancora troppo poco per l’Alleanza Atlantica, che chiede di arrivare al 2% in base a una decisione (mai sottoposta al vaglio del Parlamento) che incoraggia a spendere di più, invece che a spendere meglio, secondo una logica distorta che arriva al paradosso quando la NATO si congratula con la Grecia per la sua spesa militare ignorando la bancarotta dello Stato ellenico. L’Italia, oltre a spendere tanto, spende male, cioè in modo irrazionale e inefficiente. Il 60% delle spese è assorbito dal costo del personale, ancora altissimo a causa dello squilibrio che vede più comandanti (ufficiali e sottufficiali) che comandati (graduati e truppa). Quasi il 30% del totale viene invece speso per l’acquisto di armamenti “tradizionali” come missili, bombe, cacciabombardieri, navi da guerra e mezzi corazzati (+85 per cento rispetto al 2006), pagati in gran parte con i fondi del Ministero dello Sviluppo Economico: un ministero che dovrebbe essere ribattezzato Ministero dello Sviluppo Militare dato che destina regolarmente al comparto difesa (Leonardo/Finmeccanica, Fincantieri, Fiat-Iveco, ecc.) la quasi totalità del budget a sostegno dell’imprenditoria (l’86% quest’anno, pari a 3,4 miliardi) a discapito delle PMI e dello sviluppo industriale civile del Paese. Un meccanismo di aiuti di Stato all’industria bellica nazionale perpetuato da una potente lobby militare-industriale (con forte sponda politica) allergica a qualsiasi forma di controllo democratico su queste spese da parte del Parlamento: si vedano, a titolo di esempio, il veto di Napolitano contro l’indagine parlamentare sul programma F-35 e il mancato rispetto da parte della Pinotti della mozione parlamentare sul dimezzamento del budget dello stesso programma (budget che è addirittura aumentato da 13 a 14 miliardi) o il boicottaggio dei progetti di legge che cercano di limitare lo strapotere di questa lobby e di introdurre un reale controllo sulle spese militari. Il Parlamento, condizionato dalle pressioni e dai sotterfugi di questa potente lobby, viene forzato ad autorizzare l’acquisto di armamenti di tipologie e in quantità dettate dalle esigenze industriali e commerciali delle aziende, invece che dalle esigenze di sicurezza nazionale. Sistemi d’arma costosissimi da acquistare (quasi sempre lo Stato ricorre a mutui bancari con tassi che raggiungono il 30-40%, 310 milioni gli interessi da pagare solo quest’anno) e proibitivi da mantenere, vista la scarsità di fondi che rimangono a disposizione per l’esercizio (carburante e manutenzione mezzi ma anche addestramento soldati): poco superiori al 10% della spesa miliare totale anche calcolando il ricorso, divenuto irrinunciabile, ai fondi del Ministero dell’Economia e delle Finanze per le missioni militari all’estero (non a caso in costante aumento, +7% quest’anno) con il conseguente paradosso di uno strumento militare che non è commisurato al suo impiego, ma che necessita di impieghi commisurati alla sua “grandeur” (e necessari per mostrare ai potenziali clienti stranieri i prodotti bellici italiani all’opera). Negli ultimi vent’anni l’Esercito Italiano ha speso 30 miliardi di euro per comprare migliaia di mezzi corazzati da combattimento prodotti dalle industria bellica nazionale, spendendo molto più di quanto avrebbe speso scegliendo quelli prodotti da consorzi europei (si veda il clamoroso caso dei costosissimi blindati Freccia, scelti rispetto agli equivalenti ma molto più economici Boxer tedesco-olandesi), e dotandosi di una quantità di mezzi impossibili da mantenere (la maggior parte rimane ferma nei depositi o viene “cannibalizzata” per i pezzi di ricambio) e spropositata rispetto alle esigenze operative (solo poche decine di questi mezzi vengono impiegati nelle missioni all’estero). L’immenso “cimitero dei carri armati” dell’Esercito nascosto tra i boschi del vercellese, dove migliaia di inutili corazzati arrugginiscono nel fango, è l’emblema di questa spropositata politica di procurement. Dal canto suo l’Aeronautica Militare, su pressione di Washington, prosegue con l’acquisto dei 90 cacciabombardieri F-35 della Lockheed Martin, necessari – a suo dire – per sostituire 253 aerei in dismissione. Peccato che gli aerei da sostituire siano in realtà (sin dal 2009, quando l’acquisto fu deciso) solo 83 68 cacciabombardieri leggeri Amx, più 15 velivoli imbarcati Harrier più 70 cacciabombardieri Tornado che saranno sostituiti da altrettanti cacciabombardieri Eurofighter Typhoon (delle tranche 2 e 3) ancora in fase di consegna. Per non gettare al vento i 3,6 miliardi già spesi nel programma F-35 (1,3 miliardi per l’acquisto dei primi 8 aerei), sarebbe sensato comprarne il minimo indispensabile per completare un gruppo di volo dell’Aeronautica (15 aerei, quindi altri 7, già parzialmente pagati), oltre ai 15 per la Marina, riducendo quindi il programma da 90 a 30 velivoli, dimezzando così il budget originario (come chiesto dal Parlamento). I cacciabombardieri leggeri Amx potrebbero essere rimpiazzati con il loro naturale successore, l’M-346 FA, a 1/5 del costo di un F-35. Infine la Marina Militare che, complice il feeling tra l’ammiraglio De Giorgi e l’allora ministra Guidi (MiSE), sfruttando i naufragi in Mediterraneo e ricorrendo alla retorica del “dual use” militare-civile, è riuscita a ottenere da Governo e Parlamento 5,4 miliardi per acquistare quelle che erano state presentate come una sorta di “nave-ospedale” per il soccorso umanitario e dei pattugliatori per il controllo dei flussi migratori, il soccorso in mare e la tutela ambientale, poi rivelatesi rispettivamente una seconda portaerei gemella della Cavour (la Trieste, in grado di imbarcare anche gli F-35) e delle grosse fregate/cacciatorpediniere lanciamissili repliche delle dieci fregate FREMM. Risultato: la Marina Militare italiana (con 2 portaerei e 19 unità di primo rango, contando le 2 nuove fregate Orizzonte) supererà la Marina francese (1 portaerei e 15 unità di primo rango) eguagliando quella inglese. A fronte di tutte queste spese da potenza militare d’altri tempi e dei tanti buoni proposti contenuti nel Libro Bianco, l’Italia appare completamente impreparata a difendersi dalle minacce concrete del presente e del futuro: terrorismo e cyberwar. Per prevenire attacchi terroristici serve intelligence sul territorio e in on-line, non certo carri armati, cacciabombardieri e portaerei, e nemmeno i soldatini dell’operazione “Strade Sicure” (che aumentano la “sicurezza percepita” sottraendo risorse alla sicurezza reale). Per difendersi da attacchi informatici, che oggi mettono in imbarazzo un ministero, ma domani potrebbero mettere in ginocchio il Paese, servirebbero investimenti massicci nella cyber-difesa che invece non ci sono (150 milioni nel 2016, nulla nel 2017) e strutture militari dedicate (il cyber-comando italiano è ancora sulla carta). Investire, quindi, in una difesa razionale, efficiente, snella e all’avanguardia, tagliando tutte quelle spese militari che nulla hanno a che vedere con la sicurezza nazionale