di Pasquale Tridico, Professore in politica economica, docente di economia del lavoro, Università Roma Tre
Il quesito che andrete a votare, che andremo oggi a discutere riguarda la tassazione e, in particolare, se la tassazione è equa e sostenibile. Ve lo leggo brevemente: Il livello di pressione fiscale in Italia al 43,6% nel 2015 è troppo elevato, sia dal lato delle famiglie, sia dal lato delle imprese. Per queste ultime parliamo di un peso del 65%.
Questa situazione affossa l’economia, il lavoro e i consumi in un circolo vizioso. Cos’è che deve essere fatto? E ci sono alcuni punti: A, B, C, D, che leggiamo. Riduzione della pressione fiscale sul reddito delle persone fisiche, soprattutto per i redditi più bassi, dice il quesito. Riduzione del costo fiscale del lavoro sulle imprese. Introduzione di regimi fiscali semplificati o ultimo, revisione del sistema delle agevolazioni fiscali introducendo misure volte a semplificare la fruibilità.
Facciamo una premessa che è molto importante: negli ultimi due anni noi abbiamo avuto in Italia due problemi che sono molto molto collegati tra di loro. Da una parte la disuguaglianza crescente dei redditi, dall’altra una bassa crescita dell’economia. Non argomentiamo perché le due cose possono essere collegate perché non è proprio l’oggetto del nostro quesito ma, questi due problemi oggi metterebbero d’accordo molti economisti in Italia.
Lo strumento della tassazione è sicuramente uno dei principali mezzi attraverso il quale lo Stato interviene sia, appunto, per ridistribuire ricchezze, quindi ridistribuire risorse e intervenire quindi sulla disuguaglianza, sia per stimolare e cercare di innescare dei circoli virtuosi per la crescita e per l’economia. In Italia oggi abbiamo cinque scaglioni di IRPEF, fiscali. Il primo, che è del 23%, copre la fascia di reddito fino a 15000 euro. Il successivo del 27%, il 38%, il 41% e, per i redditi sopra i 75 mila euro, il 43%. Ora la domanda è: “è sostenibile questa divisione e questo strumento così com’è fatto? È sostenibile? È equo?”. Oppure andrebbe, come cercherò di argomentare, ridotto in qualche modo o diversificato, quindi rispondendo un po’ al punto A del vostro quesito, riduzione, riduzione della pressione fiscale sul reddito delle persone più basse. Ecco, vediamo l’incidenza di questa pressione fiscale sui diversi Paesi europei. Innanzitutto bisogna dire che la maggior parte dei paesi europei converge verso un sistema fiscale abbastanza simile tranne Paesi piccoli e Paesi economicamente molto aperti, che spesso fanno anche del dumping, cioè per attrarre i capitali possono abbassare molto le tasse, però questo è il caso, appunto, dei Paesi piccoli o di Paesi economicamente con una tradizione molto aperta che hanno anche notoriamente tassi di disuguaglianza molto alti. Sicuramente non un buon esempio da seguire.
Ma vediamo cosa accade, ad esempio, in Germania, dove l’aliquota più alta è al 45%, in Francia al 45%, in Belgio al 50%, in Austria al 50%, in Olanda al 52%, in Portogallo al 48%, nel Regno Unito al 45% e, persino fuori dall’Europa, in Australia al 45%, in Israele al 50%, in Giappone al 45%. Tutte aliquote superiori alla nostra che è, appunto, l’aliquota massima, del 43%. Quindi, la pressione al 43% non è molto più alta della maggior parte dei Paesi, la pressione, l’aliquota fiscale ultima al 43% non è la più alta in Europa e sicuramente non è più alta dei principali nostri partner. Quando dico poi principali partner europei mi riferisco soprattutto a Francia e Germania, ma come avete visto anche altri Paesi europei. Poi esiste, e questo è importante forse anche per orientare la vostra decisione, esistono alcuni paesi dove c’è una “no tax area” per quindici o dieci o nove mila euro, quindi per i redditi più bassi non si pagano tasse. Abbiamo visto che in Italia la tassa del 23%, la tassazione del 23%, la prima aliquota, si paga per un reddito, per tutti i redditi insomma, da 0 fino a 15 mila. È in discussione, da quel che mi risulta, una riforma che però si è interrotta, con il passaggio al governo Gentiloni si è interrotto un tentativo di riforma che prevedrebbe una riformulazione di queste aliquote, ma non ne stiamo a discutere, appunto, perché si è interrotta, e veniamo invece alla tassazione dei redditi, sui redditi delle imprese, quindi, la cosiddetta “corporate tax”.
La nostra aliquota qui arriva al 24% e anche in questo caso non è più alta di quella dell’Austria al 25, il Belgio 33, Francia 34, Olanda 25, Spagna 25, Portogallo 28 e, fuori dall’Europa, Stati Uniti al 35% e Australia al 30%. La nostra aliquota, appunto, è al 24% è più bassa dei principali nostri Paesi partner e mi viene quindi da dire che anche questa strada forse potrebbe non essere percorribile, quella di abbassare, come dire, considerare molto alta la pressione fiscale, per le imprese, rispetto agli altri Paesi europei. C’è un altro aspetto invece che andrebbe considerato: è quello del cuneo fiscale di cui si parla spesso. Il cuneo fiscale, come sappiamo è, in pratica, la differenza tra il costo totale comprensivo di tutti gli oneri fiscali che l’impresa paga e quanto invece di netto intasca il lavoratore. Quindi è una parte del salario che va sotto contributi fiscali, sotto oneri contributivi, che il lavoratore non percepisce, a cui contribuiscono sia imprese che lavoratori. In Italia è al 47% ma anche in questo caso siamo in buona compagnia, o meglio, ci sono partner europei che hanno il cuneo fiscale molto più alto: 53% il Belgio, la Francia al 48, la Germania al 49, l’Austria al 47.
Qui mi viene da dire una cosa: negli ultimi anni molti Paesi europei, inclusa l’Italia, soprattutto l’Italia negli ultimi due governi, ha praticato una politica di riduzione del cuneo fiscale, sia con il governo Prodi, prima di quello Berlusconi, poi il primo tentativo nel 2014, se non vado errato, del governo Renzi. Ecco, ha portato a un miglioramento questa riduzione del cuneo fiscale? C’è un pericolo, e lo diceva il nostro caro economista scomparso Sylos Labini, ridurre il costo del lavoro potrebbe incentivare, da parte delle imprese, strategie di investimenti “labour intensive” cioè che sfruttano più il costo del lavoro e meno l’innovazione. Quando invece il costo del lavoro è alto come quello che può essere un Paese ricco come il nostro, si fanno scelte imprenditoriali più orientate all’innovazione, più orientate agli investimenti, cosiddetti “capital intensive”. Ecco, ebbene, negli anni in cui abbiamo visto noi la riduzione del cuneo fiscale, non è avvenuto questo, anzi, è avvenuto proprio il contrario, cioè è avvenuto in una strategia di investimenti molto “labour intensive” che sfruttava appunto questo risparmio del costo del lavoro.
Allora ridurre il costo del lavoro, se intuitivamente potrebbe avere senso dire “riduciamo il costo del lavoro purché le imprese possano investire di più e creare maggiore occupazione” all’esame dei fatti questo non è successo, anzi è successo il contrario, le imprese hanno risparmiato, non hanno fatto investimenti “capital intensive”, hanno spesso fatto investimenti “labour intensive” a scarso contenuto innovativo, a scarso contenuto tecnologico e ciò porta a bassi livelli di produttività.