Sono felice nel constatare che l’argomento del Franco CFA, ovvero del controllo monetario della Francia sulle sue ex colonie africane, sia esploso sulla stampa italiana a seguito di dichiarazioni di Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista. Meglio tardi che mai visto che ne parliamo, seppur con minore risalto, da tempo.
Peccato che, in un continuo tentativo di denigrarci invece che di affrontare i problemi reali, la stampa utilizzi anche questo argomento come terreno di scontro col M5S facendo, quindi, da sponda a chi continua a umiliare e sottomettere politicamente Paesi e generazioni di loro cittadini.
Qualcuno si sta impegnando a “correggere” le nostre affermazioni sulla base di esclusive considerazioni economiche tipo “il tasso di cambio fisso tra franco CFA e Euro è una garanzia di minore volatilità delle monete locali” oppure “sul deposito al Tesoro francese i Paesi africani prendono la rendita maturata, quindi gli conviene” e ancora “parliamo solo dello 0.5% del debito francese quindi alla Francia non serve coprirlo così”.
Argomenti in parte veri ma assolutamente ininfluenti rispetto a questioni macroeconomiche e politiche. Partiamo dalle prime.
Come affermato da Massimo Amato, professore associato del dipartimento di scienze politiche e sociali della Bocconi, il mantenimento del cambio fisso tra moneta locale ed euro costituisce di fatto un freno allo sviluppo delle economie locali perché ogni espansione del credito interno, dall’aumento delle importazioni a quello dei prezzi, derivanti entrambi dall’aumento dell’attività economica interna, comporterebbero una conseguente variazione del tasso di cambio impedita proprio dal Franco CFA.
Questo significa quindi costringere la società di quei Paesi all’immobilismo, a non svilupparsi, a dipendere sostanzialmente, dell’esportazione di materie prime. Materie prime che, guarda caso, vengono in larga parte gestite dalla Francia grazie alle dirigenze amiche in quei Paesi (coltan, fosfati, oro ecc).
Sempre per stare nel merito occorre parlare anche di immigrazione per rispondere a chi sostiene che il numero di immigrati proveniente da quei Paesi sia irrisorio. Premesso che quest’affermazione può essere al massimo contestualizzata temporalmente ma mai detta in termini assoluti, vista la mutevolezza di questo fenomeno, non possiamo non notare come le 15 ex colonie francesi rappresentino oggi territorio di transito dei flussi migratori grazie alla rete criminale locale che sfrutta il fenomeno a suo vantaggio facendo leva sull’assenza di un’economia locale. Le migrazioni rappresentano quindi una parte consistente dell’economia locale in assenza di possibilità di sviluppo alternative.
L’argomento più importante, però, è quello della sudditanza politica. È la politica che in questo caso fa la differenza.
Prima di tutto non si capisce il motivo per il quale un Paese straniero debba detenere la valuta forte destinata a sue ex 15 colonie e convertirla in moneta locale controllandone quindi il tasso di cambio e fattori paralleli come l’inflazione. Se non bastasse però, non vi sfuggirà che determinare le politiche monetarie di una fascia così ampia e popolosa di Africa (200 milioni di persone ad oggi) sia un fattore di enorme vantaggio geopolitico e che questa “benevolenza” delle presidenze locali sia un enorme vantaggio per la Francia su temi decisamente prioritari come quello del mantenimento del diritto di veto in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite insieme a USA, Russia, Cina e Gran Bretagna. Da anni infatti si sostiene la tesi di dover rappresentare in questo consesso la UE nel suo insieme invece che un singolo Paese membro.
In buona sostanza: il rapporto vantaggioso tra la Francia e le sue ex colonie è esclusivamente riservato alle élite e come sempre questo avviene sulle spalle dei popoli cui viene tolta la speranza.
Se vogliamo davvero occuparci di Africa dobbiamo partire da questo, dalle cause dei problemi e non dai sintomi. Nei prossimi giorni approfondiremo questi temi così che tutti possiate farvene una idea migliore. Avanti così.