“Il mio consiglio è: se ci sono foto a cui davvero tenete, createne delle copie fisiche. Stampatele”.
L’affermazione già di per sé “forte” in un’epoca nella quale stiamo digitalizzando il nostro patrimonio informativo, storico e culturale proprio con l’ambizione di prolungarne la vita, qualche anno fa ha lasciato senza parole il mondo intero perché pronunciata da Vinton Cerf, uno dei padri indiscussi di Internet, oggi tra i vice-president di Google.
Uno dei digital evangelist più celebri di tutti i tempi che consiglia di stampare le foto a cui teniamo di più potrebbe apparire un paradosso.
E non basta perché Cerf in quel suo, ormai celeberrimo, intervento al meeting annuale 2015 della American Association for the Advancement of Science ha rincarato la dose: “Nei secoli che verranno, gli storici che si troveranno a guardare indietro alla nostra era potrebbero trovarsi davanti a un deserto digitale paragonabile al Medioevo, un’epoca di cui sappiamo relativamente poco a causa della scarsità di documenti scritti.”.
Il suo ragionamento è di disarmante semplicità: l’accesso a qualsiasi contenuto digitale è mediato da software, dispositivi e fornitori di servizi che realisticamente saranno meno longevi della carta, dell’inchiostro e degli altri strumenti e supporti che hanno, sin qui, garantito la conservazione del matrimonio informativo, storico e culturale del mondo intero.
In fondo basta rovistare in un vecchio cassetto, tirar fuori un floppy disk – ndr chissà quanti tra i più giovani non sanno neppure cosa sia – sul quale abbiamo archiviato la nostra tesi di laurea o qualche altro ricordo importante per toccare con mano la drammatica realtà tratteggiata da Vint Cerf: il nostro passato c’è ma non si vede, è lì da qualche parte, inghiottito in un buco nero dal quale non siamo in grado di tirarlo fuori.
Il rischio di diventare persone senza storia, incapaci di tramandare a chi verrà dopo di noi memoria dei nostri tempi è, in effetti – o almeno dovrebbe esserci – sotto i nostri occhi e, probabilmente, dovremmo occuparcene più di quanto stiamo facendo, dovremmo, in qualche modo, affrontarla come una delle tante emergenze digitali invisibili delle quali, rapiti dall’usabilità e dalla straordinaria comodità dei nuovi servizi online, troppo spesso ci dimentichiamo, ragionando – diciamocelo con franchezza – in maniera miope, guardando a domani, al massimo a dopodomani ma mai, o quasi mai, più in là.
E’ per questo che è stata istituita e lanciata, per il prossimo 31 marzo, la Giornata Mondiale del Backup, un’occasione per riflettere sull’importanza di un uso corretto del digitale per garantirci e garantire ai nostri figli e a chi verrà dopo la memoria di questi tempi.
Perché le minacce che ciascuno di noi come singolo e tutti noi come collettività si finisca con il perdere la memoria di questa epoca sono tante e non sono solo quelle indicate qualche anno fa da Cerf.
Gli incidenti, veri o presunti, e le scelte di business di giganti presenti e passati del web, per effetto dei quali milioni di utenti si sono ritrovati a dover prendere atto che ciò che avevano archiviato online – musica, fotografie o qualsiasi altro contenuto – semplicemente non c’è più, sono ormai decine nella storia moderna del web.
E le leggi non aiutano, continuando a spingere i gestori delle grandi piattaforme di users generated content – Google, Facebook, Twitter & c. per intenderci – a rimuovere miliardi di contenuti ogni anno perché pubblicati in violazione, o presunta violazione, del cosiddetto diritto all’oblio di qualcuno o, piuttosto, dei diritti d’autore.
Il web si svuota, insomma, spesso più facilmente di quanto ciascuno di noi non immagina quando affida a questo o quel servizio online tessere preziose del mosaico della propria esistenza.
Il momento giusto per fermarci a pensare a cosa fare per evitare di dover piangere domani la scomparsa della nostra storia è oggi o, magari, domenica, in occasione della giornata mondiale del backup. E se tenete a questo post, ora, stampatelo.