Siamo sempre stati convinti di dover alzare i salari degli italiani. Basta poco infatti per rendersi conto di quanto siano peggiorate le condizioni dei lavoratori negli ultimi vent’anni. Il massacro sociale portato avanti a braccetto da centro-destra e centro-sinistra sta lasciando segni profondi nell’economia, incapace di risollevarsi con le sue forze e sempre più dipendente dalla domanda estera. Se non fosse sufficiente il buon senso, però, viene in soccorso anche il nuovo rapporto della Fondazione Di Vittorio della Cgil : tra 2001 e 2017 il potere d’acquisto medio degli italiani è rimasto fermo, inchiodato agli stessi livelli, mentre dal 2010 al 2017 è addirittura sceso di 1.058 euro, da 30.272 euro 29.214, un calo del 3,5%.
La dinamica italiana è stata molto peggiore di quella della Germania e della Francia, dove i salari reali sono saliti sia nel periodo 2001-2017 che in quello 2010-2017.
Quali i motivi?
Su tutti le politiche di austerità, che hanno fatto esplodere la disoccupazione riducendo il potere contrattuale dei lavoratori di fronte alle imprese.
Ma c’è un governo in particolare che ha dato il suo contributo negativo, ed è il governo Renzi, colpevole di aver distrutto la stabilità del posto di lavoro con il Jobs Act e di aver facilitato il ricorso ai contratti precari (decreto Poletti).
Più in generale, le politiche restrittive hanno distrutto parte della nostra capacità manifatturiera, provocando l’emigrazione di giovani qualificati e il calo relativo dei dirigenti e delle professioni tecniche rispetto al totale (-7% in vent’anni). Meno il lavoro è qualificato, più sono bassi i salari e meno le imprese sono incentivate ad investire in formazione e aumento della produttività attraverso l’innovazione tecnologica.
Bisogna cambiare registro rapidamente, altrimenti il rischio è di trasformarci lentamente da un’economia a forte trazione manifatturiera (oggi siamo ancora secondi in Europa dopo la Germania) in un Paese fondato sui servizi a basso valore aggiunto e sui bassi salari.
Ecco perché la nostra proposta di legge è tanto urgente: oltre a fissare un salario minimo orario lordo sotto il quale nessuna impresa potrà andare, mettiamo ordine nei contratti collettivi nazionali. Oggi, infatti, alcune imprese riescono a pagare i lavoratori meno dei minimi contrattuali perché possono muoversi tra le centinaia di tipologie contrattuali e fanno riferimento ad accordi stipulati da sindacati ed associazioni datoriali poco rappresentative sul territorio nazionale. Il risultato è che quasi il 12% dei lavoratori regolari porta a casa salari da fame ed è in continuo aumento l’odioso fenomeno dei working poors, persone che pur lavorando sono sotto la soglia di povertà e faticano ad arrivare a fine mese.
Con il salario minimo orario si cambia non si potrà più andare sotto una cifra che sarà adeguata annualmente all’aumento dei prezzi.
Nel frattempo continuerà il nostro lavoro per ridurre la pressione fiscale sulle imprese. Abbiamo già ottenuto la riduzione di 9 punti percentuali dell’Ires, il taglio del 32% medio dei premi Inail e l’ampliamento degli sgravi contributivi Inps.
Per risollevare il Paese serve un nuovo Patto sociale tra lavoro e impresa: più salari, meno tasse, più investimenti. Stiamo cambiando l’Italia e col vostro sostegno non ci fermerà nessuno.