Una maglietta non può durare più di una stagione. Un paio di pantaloni può superare al massimo tre temporali. È questa la realtà alla quale ci stiamo abituando nel mondo della moda. Siamo sempre più assuefatti a capi di abbigliamento praticamente usa e getta, scelti con velocità in negozi uguali in ogni centro cittadino e che, con altrettanta velocità, finiscono nella spazzatura dopo averli indossati poche volte. Per la precisione, un indumento viene usato il 36% delle volte in meno rispetto a 15 anni fa. Uno spreco da circa 450 miliardi di euro l’anno. E si è quasi estinta l’abitudine di far rivivere qualche indumento addosso a fratelli o cugini più piccoli: i tessuti più in voga non sono fatti per sopravvivere a due generazioni.
Anche l’Onu si è posta il problema e il 14 marzo 2019 all’Environment Assembly a Nairobi, in Kenya, ha presentato il programma “Alliance for Sustainable Fashion”. L’obiettivo è contrastare quella moda che danneggia l’ambiente e la società: abiti fatti con materiali scadenti e per giunta a prezzi bassissimi, con pesanti conseguenze sull’ambiente, sui diritti dei lavoratori che li producono e a volte anche sulla loro salute.
Lo confermano anche i dati: per produrre vestiti si consumano circa 93 miliardi di metri cubi all’anno causando anche dei problemi nel reperire le risorse idriche in alcune regioni. E soprattutto si inquina. Il 20 per cento delle acque reflue mondiali viene da questo settore, con il loro carico di sostanze chimiche. Per non parlare del mezzo milione di tonnellate di microfibre sintetiche che finiscono nei nostri mari ad ogni lavaggio in lavatrice. L’industria tessile si basa essenzialmente su risorse non rinnovabili come il petrolio per produrre le fibre sintetiche, i fertilizzanti per far crescere il cotone e le sostanze chimiche per coltivare, colorare e rifinire le fibre e i tessuti.
Un fenomeno ovviamente in aumento, dato che in media si acquistano molti più capi di abbigliamento oggi rispetto a un decennio fa. Negli ultimi 15 anni la produzione di abbigliamento si è quasi raddoppiata per effetto dei maggiori acquisti nelle principali economie.
Gradualmente, però, si fanno strada le alternative “green” a questa tendenza, che si muovono essenzialmente lungo due direttrici: fabbricare tessuti ecosostenibili, utilizzando magari i rifiuti o gli scarti di altre produzioni; rendere il riuso e riciclo degli abiti una realtà vantaggiosa e di moda, un vero perno dell’economia circolare. In entrambi i casi l’obiettivo è quello di intercettare un mercato in espansione che promette di produrre un giro d’affari globale di oltre 37 miliardi di euro entro il prossimo anno.
Qualche esempio? Iniziamo con Klopman, azienda leader in Europa nella produzione di tessuti per abiti da lavoro, che utilizza poliestere ricavato da bottiglie di plastica riciclata, polpa di legno, cotone prodotto nel rispetto delle condizioni dei produttori nei Paesi in via di sviluppo e coltivato senza sostanze chimiche. Sono tante le imprese italiane che hanno fatto della moda sostenibile il loro business. Pensiamo ad esempio a Carvico, l’azienda che ha di recente vinto il Global Award for Sustainability come una delle sette aziende più sostenibili al mondo. Nel suo percorso di innovazione dell’industria tessile, Carvico ha iniziato una collaborazione con “Healty Seas – a Journey from waste to wear”, ong che si occupa di recuperare sui fondali degli oceani le reti da pesca abbandonate. Questo progetto ha permesso di ottenere tessuti da questo materiale. Le frontiere del recupero vanno però anche oltre: con il riciclo del fluff, il pelo rasato della moquette, o del tulle si ottiene il filo di poliammide Econyl, con il quale si realizza gran parte dei tessuti tecnici dell’azienda. È il cosiddetto upcycling, pratica grazie alla quale si dà nuova vita materiali di scarto sottraendoli al “destino” di rifiuti e producendo capi che hanno un valore ben superiore alla materia di cui sono fatti.
Se passiamo al capitolo scarti alimentari, esiste una vera miniera da cui si ricavano le materie prime per i vestiti del futuro. Alcune di queste innovazioni sono totalmente made in Italy. Partiamo da Orange Fiber, la startup siciliana che ha realizzato il primo tessuto sostenibile a partire dagli agrumi. Il risultato è un tessuto di alta qualità ottenuto dal sottoprodotto dell’industria di trasformazione degli agrumi. In questo modo si risparmiano anche le spese legate allo smaltimento di questo “mancato” rifiuto.
Dalla frutta al latte il passo è breve. E l’hanno fatto anche le fondatrici della startup “Due di latte”, Antonella Bellina ed Elisa Volpi, che realizzano abiti dalle fibre del latte, in particolare dalla caseina. Dallo scarto della lavorazione di 6 litri di latte si può produrre un abito da sera. Non è un caso che questa idea sia nata in Toscana, regione storicamente famosa per la produzione tessile. Lì Antonella Bellina è riuscita a presentare l’innovazione a tutta la filiera. E da quel momento l’ascesa di questo tessuto è stata notevole: che sia latte intero, latte scremato o latte di riso, poco importa. La cosa fondamentale è recuperare scarti che altrimenti andrebbero buttati.
Italiano è anche l’imprenditore che ha pensato a un altro liquido per produrre tessuti: il vino. Wineleather è vegetale al cento per cento ed è ricavata dalla vinaccia. L’idea sviluppata da Gianpiero Tessitore e Francesco Merlino permette di superare lo sfruttamento degli animali, producendo un tessuto sostenibile e cruelty-free.
Si potrebbe andare avanti ancora citando esempi di fibre alternative ricavate dai materiali più impensati. Impossibile, però, dimenticare che a volte basta far rinascere indumenti già usati. Al momento meno dell’1% del materiale usato per produrre vestiti viene riciclato per produrne altri. Una startup di Prato, Rifò, sta provando a fare proprio questo con il progetto “Phoenix”. Nei prossimi 10 mesi, l’azienda si occuperà di coinvolgere i consumatori e raccogliere abiti usati in cashmere da far rivivere una seconda volta. Rifò rimborserà le spese di spedizione a chi deciderà di inviare i capi usati. A quel punto i vestiti potranno essere riparati oppure verranno sfilacciati per costituire nuovi indumenti. I consumatori saranno incentivati a donare perché riceveranno un bonus di 10 euro da spendere per acquistare i capi prodotti dall’azienda. Presto, oltre al cashmere, arriverà il riciclo anche del cotone e di altri tipi di lana. Insomma, la circolarità va di moda.