La settimana scorsa San Francisco è diventata la prima città degli Stati Uniti a vietare l’utilizzo dei sistemi di riconoscimento facciale da parte delle forze dell’ordine.
Alla base della decisione la convinzione che, allo stato, la tecnologia non è sufficientemente matura per garantirne un uso compatibile con le regole democratiche.
Nei prossimi giorni, ad analoghe conclusioni, potrebbe arrivarsi in Gran Bretagna dove un cittadino, supportato da Liberty, un’associazione per la difesa dei diritti civili, scopertosi “fotografato” due volte dalla polizia in contesti assolutamente pacifici, ha chiesto a un giudice di accertare che il ricorso, da parte della polizia – in maniera indiscriminata e, allo stato, non sufficientemente regolamentato – ai sistemi di riconoscimento facciale viola il proprio diritto alla privacy ed è, pertanto, contrario ai diritti dell’uomo.
Se il giudice accogliesse la sua domanda potrebbe essere il primo stop, anche in Europa, al ricorso ai sistemi di riconoscimento facciale.
Al di là dei due episodi – pure sintomatici di una crescente attenzione da parte di politica locale e opinione pubblica al tema – è fuor di dubbio che la questione merita di essere affrontata e governata in maniera consapevole, ponderata e tempestiva, scongiurando il rischio che, in occasione di una qualche drammatica emergenza nazionale o internazionale, si dia luce verde al suo utilizzo facendo passare il principio secondo il quale tutto ciò che è tecnologicamente possibile, specie quando si tratta di combattere il crimine o, magari il terrorismo, possa, per ciò solo, considerarsi anche giuridicamente lecito e democraticamente sostenibile.
Sarebbe un drammatico errore di prospettiva, un ritorno al principio macchiavellico – evidentemente incompatibile con le democrazie moderne – secondo il quale il fine giustifica i mezzi.
I dati biometrici facciali acquisiti attraverso i sistemi di riconoscimento attualmente sotto accusa in Gran Bretagna, rappresentano, infatti, una delle tessere più preziose del mosaico dell’identità personale e, in assenza, di adeguate garanzie relative alla effettiva necessità di tale trattamento e all’affidabilità delle soluzioni attualmente in via di sperimentazione, neppure le forze dell’ordine, per i più nobili degli scopi, dovrebbero poterli far propri.
Le deroghe al principio generale secondo il quale nessuno – Stato incluso – dovrebbe poter disporre, specie nella dimensione digitale, di frammenti dell’identità personale di ciascuno di noi, in una società democratica – o, almeno, con ambizioni democratiche – dovrebbero essere poche, tassative, indispensabili a garantire ai più diritti e libertà maggiori rispetto a quelli dei quali li privano.
Non c’è e non ci sarà mai cittadinanza digitale vera, piena e effettiva, in una società come la nostra se ci lasceremo sedurre dall’ambizione secondo la quale il diritto del singolo a controllare ogni frammento della propria identità personale può lasciare il passo alla ricerca di maggiore sicurezza.
La privacy, nella sua dimensione di diritto all’identità personale, è prerequisito di cittadinanza digitale e una società forse – perché ad oggi non vi è alcuna prova scientifica a supporto di tale conclusione e, anzi, l’estrema fallibilità delle soluzioni di riconoscimento facciale in uso – più sicura non è detto che sia anche una società migliore.