Da Bruxelles è arrivata la solita letterina di minacce nel caso ci rifiutassimo di fare altra austerità. Chiariamo una volta per tutte come funziona una procedura d’infrazione e perché si tratta di un meccanismo perverso. Nella primavera di ogni anno la Commissione Europea aggiorna le stime sulle economie europee e invia ad ognuna di esse un rapporto. Se dalle previsioni emerge uno sforamento dei parametri su deficit o debito pubblico rispetto all’anno precedente, la Commissione può suggerire al Consiglio dell’Unione Europea l’apertura di una procedura d’infrazione, come ha fatto due giorni fa per il nostro Paese.
Il Patto di Stabilità e Crescita prevede due meccanismi di controllo dei conti pubblici:
• il “braccio preventivo”, che entra in gioco prima della scrittura della manovra economica imponendo ad un Paese di rispettare un certo deficit “strutturale”, misurato cioè al netto delle condizioni temporanee dell’economia;
• il “braccio correttivo”, che verifica se un Paese abbia rispettato o meno i parametri del Trattato di Maastricht, cioè un deficit pubblico inferiore al 3% del PIL e un debito pubblico inferiore al 60% del PIL.
L’Italia ha un deficit/Pil che nel 2019 si fermerà al 2,4%, quindi abbondantemente sotto il tetto deciso dall’Unione Europea con la firma del Trattato di Maastricht.
Il nostro rapporto debito/Pil, invece, è storicamente alto, e fin dall’introduzione dell’euro superava il 60%. Nel 2017 era al 131,4%, mentre nel 2018 è salito al 132,2%. Secondo le regole del Fiscal Compact questo debito va ridotto di 1/20 all’anno, cioè di oltre il 3% ogni anno nel caso dell’Italia. La Commissione ha quindi suggerito di aprire la procedura d’infrazione, perché fra 2017 e 2018 il rapporto debito/Pil è aumentato invece di diminuire.
Il problema di queste regole europee è che sono pro-cicliche. Cosa significa? Che se l’economia è in difficoltà tendono ad aggravare la situazione invece di migliorarla. È risaputo, infatti, che le politiche di austerità non funzionano. Il rapporto debito/Pil italiano è tornato a crescere da quando è scoppiata la crisi finanziaria del 2008, e soprattutto da quando il governo Monti ha dato il via alla stagione dell’austerità nel 2011. Nessuno ha aumentato il rapporto debito/Pil quanto il governo dei tecnici, che l’hanno portato dal 116,5% del 2011 al 129% del 2013. I governi del centro sinistra, a partire dal 2014 hanno dato il loro contributo, tagliando investimenti e spesa sociale e portando il rapporto debito/Pil ancora più in alto, fino al 132,2% del 2018.
Ed è proprio facendo gli stessi errori del passato che la Commissione Europea ci sta giudicando in questi giorni. Come noto, la programmazione economica per l’anno 2018 viene decisa dal governo in carica nel 2017, che a dicembre approva la Legge di Bilancio per l’anno successivo. La Legge di Bilancio per il 2018 fu opera del Governo Gentiloni, con Padoan Ministro dell’Economia. Il Governo Conte ha approvato invece la legge di Bilancio per il 2019 a dicembre 2018, e verrà quindi giudicato per i risultati di quest’anno, del 2020 e del 2021.
Non ci divertiamo a incolpare il Partito Democratico, ma è bene che tutti sappiano che la procedura d’infrazione che potrebbe scattare quest’anno riguarda il debito dello scorso anno, non quello di quest’anno.
Detto questo, la colpa grave del Partito Democratico non è stata sforare i parametri europei, che sono da cambiare radicalmente, ma aver provato a rispettarli facendo austerità. È proprio a causa dei tagli che Padoan ha aumentato ancora il rapporto debito/Pil, perché il Pil è cresciuto troppo poco. Questo nonostante l’economia europea dal 2014 al 2018 fosse in salute. L’Italia del Pd si è posizionata stabilmente agli ultimi posti per crescita nella Ue e non ha agganciato la ripresa. La situazione che abbiamo ereditato è questa, e in più a partire da fine 2018 l’economia mondiale ed europea ha rallentato a causa delle tensioni commerciali Usa-Cina-Germania.
In questo scenario bisognerebbe archiviare urgentemente le politiche di austerità e tornare a investire nella crescita. E invece la Commissione Europea che fa? Minaccia di sanzionarci se non tagliamo ancora i servizi pubblici e aumentiamo le tasse, cioè la stessa ricetta che ha fatto aumentare il debito negli anni dell’austerity. Addirittura ci rimprovera per misure sociali come Quota 100, pretendendo di decidere cosa deve fare un governo legittimato da elezioni democratiche.
Il Pd ci ha mostrato chiaramente quello che non dobbiamo assolutamente fare: piegarci ai diktat europei e infliggere ancora sacrifici a famiglie ed imprese italiane. Già nella nostra prima Manovra abbiamo contrattato un aumento del deficit 2019 al 2,04 per finanziare Reddito di Cittadinanza, Quota 100, risarcimento ai risparmiatori truffati, meno tasse sulle piccole e medie imprese e maggiori investimenti. Le importanti riforme strutturali che abbiamo realizzato, come il potenziamento dei centri per l’impiego e gli incentivi alla formazione e l’assunzione di beneficiari del Reddito di Cittadinanza, miglioreranno anche il potenziale produttivo della nostra economia e la Commissione dovrà riconoscerlo.
Ora bisogna proseguire su questa strada, dando una spinta ancora più decisa all’economia. Proprio la Commissione europea nelle sue raccomandazioni ci dice che dovremmo tagliare il cuneo fiscale e aumentare gli investimenti in infrastrutture, risparmio energetico e riconversione ecologica. Noi siamo d’accordo, ma non ci vengano a dire che queste politiche si possano conciliare con un’austerità ancora più asfissiante.
Vogliamo allora che si utilizzi la flessibilità di bilancio per gli investimenti nell’economia verde e per ridurre le tasse sul lavoro. Un vero e proprio shock positivo per l’economia, per l’ambiente e per il nostro mercato del lavoro, che può permetterci di recuperare con decisione la direzione della crescita.
Se siamo al governo è perché le regole europee hanno fallito clamorosamente. Far finta di non capirlo non farà andare lontano l’Unione Europea. Ora non devono essere i burocrati a guidare la trattativa a Bruxelles: deve essere la politica a farlo, con la forza di un Governo e di un Parlamento che chiedono un cambio di passo.