Futuro del lavoro: la trasformazione è già in atto

Di seguito la mia intervista a Economy

 

«TESLA HA INVESTITO 200 MILIONI DI DOLLARI PER UNA NUOVA ROBOTIZZAZIONE DELLE LINEE PRODUTTIVE GESTITA DALL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE, E NEL GIRO DI SEI MESI HA LICENZIATO CIRCA 4.000 OPERAI. Nei sei mesi successivi, altri 3.000. Nel frattempo, nel corso di quell’anno, ha fatturato 2,2 miliardi in più, con 7000 persone in meno! E con quella riorganizzazione ha potuto tagliare i prezzi del 20% sulla fascia alta della gamma»: Davide Casaleggio, presidente della Casaleggio Associati e fondatore dell’Associazione Rousseau – “la piattaforma di democrazia diretta del Movimento 5 Stelle” com’è definita nel suo sito – di mestiere fa innanzitutto e soprattutto l’analista di tecnologie digitali («investiamo circa il 30% del nostro tempo nel fare ricerche con cui poter poi fornire una consulenza di qualità», sottolinea ) e fa il consulente d’impresa in questo stesso ambito. Delle conclusioni cui è giunto in base agli ultimi studi e alle attività consulenziali sul tema dell’intelligenza artificiale e del suo impatto sul lavoro ha parlato in quest’intervista con Economy, dove invece non si toccano le questioni più direttamente collegate al ruolo politico della Piattaforma Rousseau.

E dunque, Casaleggio: il caso Tesla dimostra quel che un certo pensiero unico di alcuni economisti d’impresa insiste a smentire, e cioè che stavolta la nuova stagione dell’automazione distrugge più posti di lavoro di quanti ne produca. È d’accordo?
Sì, Tesla è riuscita in un miracolo, o se si vuole in un paradosso, cioè – investendo in robotica e rivoluzionando il processo produttivo – è riuscita a tagliare i costi e i posti di lavoro, tagliare i prezzi, e aumentare il fatturato migliorando i margini. Tutte le altre società dell’automotive stanno ora progettando interventi analoghi. Un recente studio congiunto del sindacato tedesco di categoria e dell’associazione degli ingegneri afferma che su 210 mila posizioni considerate, tra automazione e spostamento della gamma verso le motorizzazioni elettriche, nel giro di una decina d’anni 75 mila non saranno più necessarie. Si creeranno, sì, nuovi posti di lavoro, ma saranno solo 25 mila. Quindi, ci saranno 50 mila operai disoccupati. Da ricollocare.

Quindi il problema è adesso?
La trasformazione è già in atto. Chi cerca di nasconderla o fa finta che non ci sia, non elimina il problema. Che va affrontato adesso, è già chiaramente visibile, anche se non ha avuto ancora gli impatti importanti che minaccia di avere sulla società in futuro.

E dunque non crede al sillogismo in base al quale chi verrà espulso dal mondo del lavoro perché soppiantato da un robot potrà essere reimpiegato nelle fabbriche di robot o nelle aziende che gestiranno i robot?
Sì, un ingegnere sì: se non sarà più necessario in una fabbrica d’auto potrà almeno tentare di riconvertirsi e andare in una fabbrica di robot. Ma i lavori di massa? Gli operai di linea? I baristi di Las Vegas che hanno scioperato contro i robot che fanno i cocktail danno il senso della nuova rivoluzione in atto. Probabilmente non avremo soltanto baristi-robot in giro per il mondo, ma in molti casi sì, li avremo. A Pittsburgh prosegue la sperimentazione dei taxi a guida autonoma, con successo crescente, e con crescenti atti vandalici contro gli automezzi, probabilmente da parte di chi teme di perdere il lavoro. In Australia, i camion che trasportano i minerali estratti dalle miniere fino a Pert vanno a guida autonoma. Certo le strade di Pittsburgh sono pulite e lineari, ampie e ben segnalate, le strade australiane sono immense e non trafficate a si comincia a usare la guida autonoma anche in contesti più ordinari. Altri posti di lavoro resi inutili dalla tecnologia.

E dunque, che fare per salvare il lavoro?
Ripeto: innanzitutto è essenziale ammettere il problema. Poi non bisogna dare per scontato quel che abbiamo visto finora lo ritroveremo nei prossimi 50-100 anni. Agli inizi del ‘900 il 90% dei lavoratori italiani andava a lavorare nei campi, con zappa e falce, alle 5 del mattino. Oggi solo il 2% dei lavoratori italiani si occupa di agricoltura, e lo fa senza zappa perché gli attrezzi sono stati rimpiazzati dalle macchine. Abbiamo già vissuto profondissime trasformazioni del lavoro, e anche la riduzione del tempo di lavoro si è già vista, ma è stata spalmata socialmente ed economicamente in modi nuovi e sostenibili.

Ma adesso tutto sembra star cambiando vorticosamente…
Questa velocità del cambiamento è una parte importante del problema. Tutto sta avvenendo sotto i nostri occhi, senza neanche lasciare il tempo per la riqualificazione delle persone. Del resto, e in generale, la formazione di base non basterà mai più e a nessuno per tutta la vita. Dobbiamo ripensare anche il modo di formare le persone.

Ok, e intanto che lavoro gli facciamo fare?
Parliamo piuttosto del tempo da dedicare al lavoro. Oggi nella media mondiale si lavora per il 13% delle ore vissute, calcolando anche le notti. A inizio ‘800 era il 23%. Nei Paesi Osce e in Italia siamo tra l’8 e il 9%. Chiaramente ridurremo ancora la percentuale del nostro tempo dedicata al lavoro, com’è già accaduto mille volte. Nel 1791 a Filadelfia si scioperò per portare l’orario a 10 ore giornaliere… Oggi in Francia si lavora 35 ore alla settimana.

Sì, ma finora questi tagli sono stati conseguiti a parità di salario!
Infatti: il nuovo problema è rivedere i criteri della redistribuzione del reddito tra il capitale e il lavoro, che si è sviluppata linearmente fino al ’75. È dal ‘75 in poi che i lavoratori – in media – hanno perso i benefici che avevano fino a quel momento ricevuto dalla maggior produttività, benefici che sono andati interamente al capitale, tanto che con le stock-option o i premi sui risultati si è cercato di collegare i salari agli stessi parametri con cui viene remunerato il capitale. Il progressivo scomparire della storica ripartizione dei profitti tra capitale e lavoro non ha però creato l’esigenza sociale di ridisegnare i rapporti perché i posti crescevano o almeno non diminuivano. Adesso si pone il problema del ridisegno di quell’equilibrio di fondo ormai scomparso tra capitale e lavoro. Le tecnologie esponenziali del digitale stanno avendo impatto immediato e diretto sull’occupazione mentre stanno remunerando sempre di più il capitale.

Bene: siamo al punto. Come ridefinire il rapporto capitale-lavoro?
Innanzitutto, e lo ripeto, con un’ulteriore riduzione del tempo del lavoro, dall’attuale 8-9% in giù. E, contestualmente, con una redistribuzione fruttuosa del tempo liberato, che sprigioni valore per la collettività, permettendo al sistema risparmi economici nuovi che in qualche modo compensino il calo del valore delle ore lavorate.

Proviamo a fare un esempio. Un operaio che passi dalle otto ore di lavoro a quota sei, in quelle due ore libere fa qualcosa di utile per la collettività e in compenso paga meno tasse?
Suona bene, ma per concettualizzare meglio quel che penso, direi che il problema non è “cosa faccio se non lavoro”, perché appunto basta dedicarsi alla comunità, al volontariato – su cui peraltro l’Italia è molto forte – e lo si risolve. Il difficile è redistribuire il reddito generato dall’iperproduttività da automazione. Visto che si stanno creando contesti di iperproduttività, si pone l’esigenza di normarli per redistribuire questa iperproduttività verso la comunità.

Somiglia alla tassa sui robot ipotizzata perfino da Bill Gates che fa però inorridire i liberisti puri…
Ci sono varie soluzioni. In realtà non credo che la migliore sia tassare e scoraggiare l’efficienza della produzione. Oggi dobbiamo iniziare a capire qual è il metodo che vogliamo applicare. È il tema che abbiamo voluto sollevare col nostro recente filmato sul futuro del lavoro, quello che abbiamo intitolato “2054: la fine del lavoro come lo conosciamo”. Possiamo essere  in disaccordo l’uno con l’altro sui rimedi e sul peso delle nuove tecnologie, ma per carità parliamone: se ignoriamo il problema, e il fatto che ineluttabilmente si porrà, ecco: cominciamo ad avere il problema!

Vorrete mica porvi come i nuovi luddisti!
Ci mancherebbe altro! Non voglio distruggere proprio niente. Dobbiamo iniziare ad agire sul piano tattico e progettare su quello strategico. Tatticamente, comincerei con l’agevolare il reshoring delle aziende che avevano traslocato nei Paesi a basso costo del lavoro. Ora che possono produrre le stesse cose con meno addetti, tornino a produrre qui! Poi, certamente, riqualifichiamo i lavoratori. Siamo a zero. Oggi se parli di blockchain 99 persone su 100 ti rispondono: ah, sì, quella roba dei bitcoin. Mentre si sta parlando di ben altro. Poi finanziamo l’innovazione, e aumentiamo il lavoro nell’innovazione. Oggi l’Italia investe la metà della Germania e un terzo della Svezia o della Corea del Sud.

Sì, va bene: ma stiamo parlando di decimali. E poi?
Poi, strategicamente, applichiamoci a redistribuire questa nuova iperproduttività. Tassare gli straordinari, sicuramente; e alleggerire le tasse sul lavoro ordinario; orientare la politica monetaria e fiscale a favore dell’occupazione; e, col tempo, riequilibrare i pesi del tempo lavorato e della tassazione. Penso che col tempo le tasse sul lavoro diminuiranno, perché per le aziende assumere sarà un titolo di merito. Oggi sul mercato c’è un’ Amazon che fattura 6-700 mila dollari per dipendente, mentre WalMart soltanto 200 mila… Non penso che WalMart vada premiata se non investe nell’automazione della distribuzione, però bisogna pur capire come creare lavoro o non distruggerlo pur automatizzando…

Di chiaro c’è solo che il problema della distruzione del lavoro da parte dei robot si pone, come risolverlo è tutto da chiarire, ma se non lo riconosciamo come un problema, non cominceremo mai. Ma, per concludere, quali altri settori, secondo le vostre ricerche, saranno investiti dalla disruption tecnologica?
Intanto in Italia crescerà ancora molto l’e-commerce – uno dei settori su cui lavoriamo da tredici anni – e questo ovviamente non sarà privo di conseguenze sul commercio tradizionale. Ma anche le aziende italiane dell’e-commerce hanno vissuto un problema di scala dimensionale inadeguata e di dipendenza da Google o da Amazon che alla lunga le sta fiaccando. Ora stiamo approfondendo gli sviluppi e l’impatto della blockchain. Si stima che entro il 2027 questa tecnologia impatterà sul 10% sul Pil mondiale, cioè il 10% del pil mondiale transiterà per sistemi di blockchain. E la blockchain è un sistema che genera e distribuisce fiducia. A nostro avviso alcuni settori ne saranno particolarmente investiti, però forse in chiave espansiva. Per esempio le assicurazioni, con le micropolizze oggi antieconomiche, come quelle che assicurano contro il ritardo di un volo… Ha cominciato a farlo Axa, secondo noi avrà un grande sviluppo.