“Nel nostro Paese l’esigenza di un salario minimo legale, negli scorsi decenni è stata trascurabile, alla luce soprattutto di una forte e centralizzata contrattazione collettiva. Nell’ultimo ventennio, tuttavia, la capacità regolativa del contratto collettivo nazionale è stata fortemente indebolita da fattori sia endogeni che esogeni. Non solo si è indebolita la funzione ‘anticoncorrenziale’ della contrattazione collettiva, ma nei casi peggiori, noti come ‘contrattazione pirata’ è stata addirittura foriera di dumping sociale e di law shopping. Si registra, sempre più spesso un quadro all’interno del quale si vede la nascita di nuove organizzazioni sindacali e datoriali di scarsa o nulla capacità rappresentativa firmatarie di CCNL al ribasso, di contrattazione pirata, e di ‘aziendalizzazione’ delle relazioni di lavoro. Alla luce di questa evoluzione, sia la giurisprudenza lavorista che gli studi economici del mercato del lavoro, hanno sollecitato giustamente l’esigenza di un salario minimo legale, tanto più se integrato con la contrattazione collettiva”.
Questo è ciò che l’Inps ha scritto nella Relazione che il 13 marzo scorso ha presentato in audizione sul salario minimo orario in Commissione Lavoro al Senato. Infatti la proposta di Nunzia Catalfo non interviene solo per spingere verso l’alto gli stipendi di quasi 3 milioni di lavoratori ma anche per combattere veramente il dumping, salariale e – di conseguenza – sociale. Una battaglia non più rinviabile, come testimoniato da quanto ha messo nero su bianco il nostro Istituto di previdenza.
I circa 900 contratti collettivi nazionali (CCNL) depositati al CNEL, di cui poco più di 200 firmati da Cgil, Cisl e Uil, sono la prova provata della necessità di mettere fuorigioco i cosiddetti “contratti pirata”. Di che cosa si tratta? Di CCNL sottoscritti da associazioni sindacali e imprenditoriali scarsamente rappresentative che spingono verso il basso le retribuzioni di milioni di lavoratori, creando disuguaglianze e disparità tra lavoratori che operano nello stesso settore con uguale mansione e qualifica. Questo andazzo ha un effetto negativo sia sull’economia sia sulla produttività, non è un caso che, come certificato dall’OCSE, l’Italia sia fanalino di coda europeo. Come si può spezzare questo circolo vizioso? Semplice: con una norma che riconosca come “leader” quei contratti collettivi nazionali sottoscritti dalle associazioni sindacali e datoriali più rappresentative. Proprio quella che abbiamo inserito nel ddl Catalfo all’articolo 3.
Nello specifico, vogliamo che “in presenza di una pluralità di contratti collettivi (…) il trattamento economico complessivo che costituisce retribuzione proporzionata e sufficiente non può essere inferiore a quello previsto per la prestazione di lavoro dedotta in obbligazione dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria stessa”, e in ogni caso non inferiore a 9 euro lordi all’ora.
Un principio semplice e di buonsenso che, in attesa di una legge sulla rappresentanza, è l’unica strada al momento percorribile per arginare il dumping.
Per noi del MoVimento 5 Stelle, nel 2019 non è più ammissibile che ci siano lavoratori pagati 4/5 euro lordi all’ora, come previsto da alcuni contratti collettivi. Qualche esempio: vigilanza privata 4,72 euro, operai agricoli 5,18 euro, servizi di pulizia 6,51 euro. Questo vuol dire avere stipendi che in certi casi sono sotto la soglia di povertà. Dall’altra parte, vogliamo mettere le aziende, per le quali – nonostante una certa narrazione che ci vuole far passare come loro nemiche – abbiamo fatto tantissimo in questo primo anno di Governo, nelle condizioni di competere liberamente sul mercato proprio stoppando la concorrenza sleale. A ciò, uniremo un congruo taglio del cuneo fiscale che partirà da un doppio esonero dal contributo alla NASpI (l’indennità di disoccupazione per i lavoratori che hanno perso involontariamente il posto) e dalla contribuzione destinata al finanziamento della disoccupazione agricola per un importo di 4/5 miliardi di euro.
Chi dice di avere a cuore i diritti e la dignità dei lavoratori e il bene delle imprese non può opporsi al salario minimo. Andiamo avanti, non c’è più tempo da perdere.