Gli attacchi di Repubblica al MoVimento 5 Stelle non fanno più notizia.
Sono diventati una categoria giornalistica a parte, legittimati dal convulso gioco al ribasso in cui il giornalismo italiano cerca nuove glorie (ed entrate). Un meccanismo che non ci indebolisce ma ci rafforza, che non ci imbarazza ma ci fa provare compassione per mandanti e autori. Un cliché che in realtà svela il pregiudizio classista di una “sinistra” trincerata dietro i propri dogmi autoassolutori, incapace di leggere le esigenze di un Paese a cui il MoVimento ha invece dato voce e futuro.
La miseria di questa operazione ci è offerta ogni giorno da articoli come quello che venerdì scorso ha spinto il quotidiano a inventare virgolettati di Luigi Di Maio sull’incontro tra i due vicepremier a Palazzo Chigi, a parlare di «abbronzatura marroncina» per deriderlo, come se l’abbronzatura o il colore della pelle fossero valide ragioni (non solo politiche) per fare dell’ironia, dal sapore piuttosto amaro. Ma è evidentemente il segno dei tempi. Quei tempi che con il cambio di direzione non immaginavamo potessero essere più bui di quelli già trascorsi.
Ci sbagliavamo. La Repubblica era e resta l’house organ del Partito democratico, ha solo mutato la strategia d’approccio.
Giorno dopo giorno si sta sempre più qualificando per un lavoro politico e non informativo. C’è una chiara operazione mediatica per riesumare i defunti centrodestra e centrosinistra, pronti a misurarsi in un nuovo gioco degli specchi fine a sé stesso, sacrificando il Paese sull’altare di un sistema partitico che ha nostalgia della Prima Repubblica, dei suoi vizi e dei suoi privilegi. Di questa operazione La Repubblica non si limita a darne notizia, seppur con parzialità. Ne è persino parte integrante. Ne è complice.
Il Pd è il partito, il cui segretario latita dal suo incarico alla guida della Regione Lazio dopo la carica assunta a marzo, che non vuole tagliare le poltrone, che vorrebbe ripristinare i vitalizi, che non vuole il salario minimo per i lavoratori italiani e che ha insistentemente cercato di alzare gli stipendi minimi dei parlamentari. Di fronte a tutto questo La Repubblica non solo tace, ma mette in piedi una vera e propria campagna di delegittimazione del MoVimento 5 Stelle, inneggiando a falsi miti e incoronando vecchi eroi. Non importa nemmeno più vincere o provare a vincere, per De Benedetti; la sua partita non conta. Importa solo che a perdere sia il Movimento 5 Stelle. Il pretesto è continuo e sistematico. Il solco è quello tracciato dal Patto del Nazareno.
Insomma, il nuovo abito indossato da Repubblica, secondo quotidiano italiano ma da un po’ di tempo primo sponsor di un’operazione dal confuso sapore “democratico” e berlusconiano, nasconde una curiosa nemesi parossistica: quello che era stato il baluardo morale dell’antiberlusconismo è oggi un quotidiano in crisi di identità, consumato dall’odio per il MoVimento 5 Stelle e dalla speranza di rivedere il Pd al governo del Paese, in una nuova saga del bipolarismo all’italiana. Obiettivi per i quali la legittimazione fuori tempo massimo del Nemico Pubblico e del centrodestra non sono più un problema. Ma, anzi, parte della soluzione. Della serie “il nemico del mio nemico diventa mio amico”. E pazienza, se fino a ieri lo si combatteva a colpi di etica e morale: oggi l’Italia ha nuovamente bisogno di lui.
Oggi, quindi, pur di buttare giù il Movimento 5 Stelle vale tutto, persino svendere i propri valori e tradire decine di migliaia di lettori. Peccato non abbiano fatto tesoro dell’insegnamento di un grande simbolo del giornalismo italiano, Enzo Biagi, grande uomo che ci ha lasciato un pensiero senza tempo:
«Considero il giornale un servizio pubblico come i trasporti pubblici e l’acquedotto. Non manderò nelle vostre case acqua inquinata».