Nel nostro viaggio attraverso il futuro del lavoro, abbiamo toccato molti aspetti, dall’impatto dell’automazione di massa, a quello dei nuovi modelli di formazione per nuove esigenze di competenze. Oggi affrontiamo un argomento che apparentemente non sembra così connesso al futuro del lavoro, ma che in realtà rappresenta un fattore fondamentale, come per altro è emerso chiaramente nel corso dell’evento-studio organizzato dall’Associazione Rousseau sulla Cittadinanza Digitale lo scorso giovedì a Roma.
Stiamo parlando dell’identità digitale, cioè quello strumento, al quale sottendono una serie di diritti e di principi universali connessi alla persona, che ci consente di essere identificati in maniera univoca e certa su internet.
In questo senso l’identità digitale diventa fondamentale quando si parla della cosiddetta gig economy che in Italia rappresenta ancora una nicchia di lavoratori – secondo un’indagine condotta da Fondazione Debenedetti in collaborazione con l’Inps nel maggio 2018 i lavoratori “gig” nel nostro Paese rappresentano solo il 2,03% del totale -, ma che negli Stati Uniti per esempio prima del 2027 potrebbero arrivare a rappresentare quasi un lavoratore su tre, secondo lo studio dei ricercatori Siddharth Suri and Mary L. Gray del Microsoft Research. Nell’ agenda europea per l’economia collaborativa la Commissione Europea stima che in futuro il settore “potrebbe apportare all’economia dell’UE da 160 a 572 miliardi di euro di ulteriore giro d’affari (includendo però nel calcolo piattaforme del cosiddetto asset rental come Airbnb).
Una fetta consistente di popolazione insomma, destinata a crescere nello scenario che si sta disegnando per il futuro del lavoro.
Uno dei problemi che si trova ad affrontare chi si affida a un “gig worker” è quello della certezza della sua identità e quindi, in ultima analisi della fiducia. Una volta acquistato un servizio su una piattaforma di freelancer, come possiamo essere certi che chi abbiamo contattato sia proprio la persona che poi svolgerà il lavoro? E il lavoratore come può garantire di essere chi dice di essere e quindi di avere le competenze specifiche che dichiara? L’ID digitale potrebbe essere una soluzione ai problemi del mercato della gig economy. A differenza degli ID basati su carta (carta di identità, passaporto, patente di guida), un ID digitale può essere autenticato da remoto sui canali digitali sia dal lavoratore, sia dal cliente, sia dalla piattaforma sulla quale avviene il contatto e attraverso la quale spesso passa l’incarico professionale. Anche da un punto di vista contabile e fiscale, sarebbe molto più semplice per il freelance gestire le diverse pratiche che potrebbero confluire tutte su un’unica identità digitale invece che essere disperse tra decine di account diversi, con una ottimizzazione dei processi, delle risorse e probabilmente anche del pagamento e della riscossione delle imposte.
Ma certamente uno dei principali vantaggi per il lavoratore sarebbe rappresentato dalla possibilità di offrire non solo la propria identità, ma anche le proprie competenze verificate.
Il McKinsey Global Institute nel report dello scorso aprile dal titolo Identificazione digitale una chiave per la crescita inclusiva ha messo bene a fuoco i vantaggi dell’adozione di una identità digitale dal punto di vista dello sviluppo economico, non solo dei paesi emergenti. Secondo la ricerca, una buona ID digitale richiede i seguenti quattro attributi: può essere verificato e autenticato con un elevato grado di sicurezza, è univoco, viene stabilito con il consenso individuale e protegge la privacy dell’utente e garantisce il controllo sui dati personali. In questo modo può aiutare l’inclusione sociale e lavorativa, con benefici sulla crescita economica che sono stati valutati pari al 6% del PIL entro il 2030 tra le economie emergenti, di circa il 3% nelle economie mature.