Antonello Pasini è un fisico climatologo del Cnr e autore di molte pubblicazioni specialistiche e divulgative, insegna Fisica del clima a Roma Tre e Sostenibilità ambientale – aspetti scientifici all’Università Gregoriana di Roma. Da scienziato e divulgatore, non rinuncia a prendere posizione nella battaglia per una consapevolezza diffusa rispetto ai rischi connessi alla crisi climatica. Ci siamo confrontati con lui per analizzare la posizione di alcuni scienziati “scettici” e discutere della transizione energetica.
Professor Pasini, un nutrito gruppo di scienziati nel nostro Paese definisce una “congettura” il riscaldamento globale di origine antropica. Basta questo a sostenere che la scienza non è unanime sul punto? Che opinione ha delle argomentazioni che sorreggono questa posizione?
Si tratta di un’operazione molto “furba”, perché tende a far credere che la comunità scientifica che si occupa di clima e dei suoi cambiamenti si accapigli a discutere sulle origini del riscaldamento globale. In realtà, il dibattito scientifico è molto vivo, ma non su questo punto: è ormai assodato che la maggior parte del riscaldamento globale dell’ultimo secolo sia dovuto alle azioni umane, in primo luogo le emissioni di gas serra e un non corretto uso del suolo. In realtà chi esprime queste opinioni che negano l’importanza fondamentale dell’influsso umano sul clima ha solitamente poca o nessuna esperienza di ricerca nell’ambito dei cambiamenti climatici. Io dico spesso che non siamo più ai tempi di Leonardo da Vinci, quando in una singola persona si poteva racchiudere il sapere universale. Oggi la scienza è specializzata e utilizza metodiche di indagine della realtà molto diverse tra loro. Il clima è un sistema complesso e va studiato con strumenti e modelli complessi che solo chi pubblica regolarmente lavori su riviste internazionali del settore comprende e sa usare. Per questo conviene approfondire i temi portati da questi scienziati di altri campi: ci sono tanti esempi di confutazione delle loro dichiarazioni. Si scoprirà facilmente quanti errori e affermazioni non vere siano state espresse da questi professori. E quando non si abbia abbastanza esperienza per capire chi porta risultati scientifici seri, ci si affidi al fatto che questi presunti esperti siano o no competenti in materia climatica. Basta inserire il loro nome su un motore di ricerca, specie se mirato alla conoscenza scientifica, per capire quanto questi signori abbiano scritto su questo tema in riviste del settore. Perché non fare una prova su Google Scholar? Vi divertirete.
Che significato assume sotto il profilo scientifico lo scioglimento del ghiacciaio Planpincieux, sul versante italiano del Monte Bianco? È un fenomeno connesso con il climate change? In che modo?
Vi sono stati alcuni episodi di questo tipo in passato, anche se probabilmente non con questa velocità di “slittamento”. In realtà questi fenomeni, che a livello locale possono portare notevoli problemi a valle, se visti a livello più globale (ovviamente avvengono anche altrove) ci fanno pensare che vadano riviste alcune previsioni fatte anche recentemente. In effetti, più i nostri glaciologi studiano la dinamica dei ghiacci, più ci si rende conto che il ghiaccio si fonde effettivamente in superficie per la temperatura media aumentata e per le ondate di calore, ma questo ghiaccio diventato acqua non scorre solo in superficie: spesso si infiltra tra la roccia sottostante e la base del ghiacciaio, lubrificando questa superficie e facendo in modo che il ghiaccio scivoli giù, con distacchi bruschi che accelerano la perdita di ghiacci. In generale, le ultime previsioni IPCC del rapporto 2013 non consideravano con attenzione questi fenomeni bruschi. Ora che li conosciamo meglio, possiamo dire che probabilmente la perdita di ghiacciai montani sarà più rapida, per cui dobbiamo rivedere le nostre previsioni di innalzamento del livello del mare, che dovrebbe essere più accentuato, con grossi problemi per gran parte delle coste del mondo.
Nel caso non si adottassero misure concrete per contrastare i cambiamenti climatici, qual è lo scenario che dovremmo aspettarci per l’Italia da qui al 2050?
Già oggi l’Italia, a fronte di un riscaldamento medio globale di circa 1°C nell’ultimo secolo, si è riscaldata invece di circa 2°C. Nel caso continuassimo con le tendenze attuali di emissioni di gas serra, si può facilmente pensare che in Italia al 2050 la temperatura media possa aumentare come minimo almeno di un altro grado, ma probabilmente di più. In ultima istanza, comunque, il problema non è solo che suderemo un po’ di più, ma il fatto che questo riscaldamento sarà accompagnato da impatti sempre più forti sul territorio, gli ecosistemi e l’uomo, con la sua salute e le sue attività produttive, prima tra tutte l’agricoltura. Si pensi alle ondate di calore e alla nascita di inquinanti come l’ozono nelle nostre città, con i relativi problemi per la salute, soprattutto di categorie deboli come anziani, bambini, asmatici, cardiopatici. Si pensi all’aumento della violenza degli eventi estremi di pioggia e vento e ai tanti danni e morti che contiamo ogni giorno di più. Si ricordi la siccità che ha colpito in varie annate recenti la nostra Italia e ai danni che ha fatto all’agricoltura: questi danni potranno essere maggiori. Da un lato dobbiamo diminuire le nostre emissioni affinché questi impatti non aumentino ulteriormente; dall’altro dobbiamo adattarci e mettere in sicurezza il nostro Paese dai danni che comunque ci dovremo tenere anche con una diminuzione delle emissioni: si ricordi che non si parla mai di tornare indietro con la temperatura, ma solo di stabilizzarla a livelli non troppo pericolosi.
In merito al contrasto ai cambiamenti climatici, quali potrebbero essere le azioni prioritarie da attuare, per avere dei risultati nel breve e medio termine?
Ovviamente è importante innanzi tutto avere coscienza del problema e basarsi sui dati della migliore scienza. Poi ognuno di noi può fare qualcosa con il cambiamento del proprio stile di vita, ma anche con l’innesco di circuiti virtuosi dal basso, di consumo, risparmio energetico, produzione distribuita di energia. Ma importantissimo è spingere sui nostri politici affinché adottino politiche ambientali serie e incisive. Infatti, sono loro che devono gestire la transizione energetica, perché si tratta soprattutto di cambiare il modo di produrre energia, abbandonando gradualmente ma in maniera decisa i combustibili fossili. E per fare questo la transizione va gestita politicamente, per evitare che la paghino le fasce più deboli della popolazione.
La lotta ai cambiamenti climatici può rappresentare anche un’opportunità per costruire un nuovo modello economico e sociale?
Assolutamente sì! Ricordo a tutti che i rapporti IPCC (e l’accordo di Parigi che su questi si basa) ci dicono che, se vogliamo evitare i guai peggiori ed eventualmente irreversibili dei cambiamenti climatici, la seconda parte di questo secolo dovrà essere ad emissioni nette di carbonio zero. Questo è un messaggio molto forte ai politici, agli economisti, ai businessmen. Signori – si fa capire – il carbone, il petrolio, il gas naturale non hanno futuro. Se volete fare business, dovete farlo su altro. Io credo poi che ci sia un equivoco di fondo: molti pensano che la lotta ai cambiamenti climatici sia un tema di chi vuole regolamentare strettamente l’economia con interventi pubblici. In realtà non sappiamo bene quale sia la ricetta per la gestione della transizione energetica: insieme a possibili azioni sulle leve fiscali, abbiamo bisogno di uno sforzo congiunto di imprenditori illuminati di tutte le tendenze politiche, perché salire adesso sulla stessa barca significa anche cogliere tutte le opportunità che presenta il passaggio ad un’economia sostenibile, circolare, senza emissioni di carbonio. Del resto la nostra Italia è fatta soprattutto di piccole aziende poco energivore e locali. Questo nuovo modello si adatta perfettamente al loro sviluppo.