Dai primi anni ’50 a oggi ne abbiamo prodotto più di 8 miliardi di tonnellate, quasi due terzi delle quali sono finiti in discarica, nell’ambiente o bruciati illegalmente. La plastica si è in un certo senso impossessata delle nostre vite, spesso facilitandole. Eppure, la loro massiccia dispersione nell’ambiente, anche sotto forma di microplastiche, oggi rappresenta un pericolo per la natura e per l’uomo. “Il problema è generato da una cattiva gestione dei rifiuti e da una mancanza di informazioni appropriate”, ci spiega Luigi Ambrosio, direttore dell’Istituto per i Polimeri, Compositi e Biomateriali del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Le criticità, in effetti, nascono non dal materiale in sé – alcune delle applicazioni pratiche di questi polimeri sono fondamentali, basti pensare ai dispositivi medici – ma, alla cattiva gestione dei rifiuti e al fatto che molti degli attuali usi della plastica spesso non sono necessari, ad esempio le stoviglie usa e getta. Con il direttore dell’Istituto per i Polimeri, Compositi e Biomateriali del Cnr abbiamo fatto un punto sulle possibili alternative.
Professor Ambrosio, l’utilizzo della plastica è stato, per molto tempo, fondamentale: è davvero possibile farne a meno oggi?
Allo stato attuale non è possibile. Credo che i settori nei quali le bioplastiche avranno maggiore sviluppo saranno quelli relativi ai beni di consumo comune. Ad esempio, sarà opportuno ridurre il packaging nel cosmetico (dentifrici, creme, pomate, etc,), dove per scopi di marketing viene spesso utilizzato un doppio imballaggio, totalmente inutile. Discorso diverso invece se facciamo riferimento all’applicazione della plastica nella realizzazione di dispositivi medici oppure in altri settori quali quello dei trasporti, dove l’inserimento delle plastiche ha permesso di alleggerire la struttura, riducendo notevolmente il consumo di carburante. Tale riduzione di peso sta ad esempio permettendo di incrementare l’autonomia delle auto elettriche.
Quali sono le soluzioni più credibili e prossime ad essere utilizzate?
La comprensione di diversi fenomeni che riguardano la chimica e il processo di materiali naturali, quali quelli provenienti da scarto, ha permesso di sviluppare una serie di materiali e additivi molto interessanti. Allo stato attuale tali bioplastiche, in funzione della loro composizione, presentano ancora delle proprietà meccaniche limitate e una sensibilità all’acqua che ne riduce le applicazioni. Un’applicazione abbastanza interessante può essere quella della ristorazione o dove imballaggi dove non è richiesto una shelf-life (il periodo entro il quale l’alimento si considera privo di rischi per la salute del consumatore, ndr) superiore ai 15 giorni. Comunque, sarà necessario anche lavorare per gestire la competizione tra l’utilizzo di tali scarti per la produzione di bioplastiche e la possibile applicazione degli stessi come fertilizzanti naturali o persino per la realizzazione di essenze naturali.
Come si fa?
Al momento non è stato trovato il giusto bilanciamento tra queste necessità. Individuare nuovi materiali per sostituire la plastica è, dal punto di vista di noi chimici, un processo estremamente complesso, se si considerano le caratteristiche pressoché uniche della plastica. Finora si è ricorsi perlopiù a materie naturali, che hanno permesso di creare bioplastiche innovative con prestazioni del tutto analoghe a quelle delle loro controparti tradizionali, ma solo in determinati ambiti, dove non si richiedono resistenze notevoli e tempi lunghi di applicazione. Queste materie prime possono essere utilizzate anche nel campo della salute o in campo agricolo e dunque va verificata l’effettiva utilità calcolando, ad esempio, i costi, i tempi di lavorazione e l’impatto dei processi energetici da utilizzare per arrivare al prodotto finale. Bisogna fare quindi un discorso più sistemico e valutare se possono esserci delle soluzioni alternative comparabili con la plastica tradizionale, da impiegare in più ambiti e non solo in quello alimentare.
Oltre alla ricerca, un ruolo importante in questo passaggio lo giocano i consumatori.
Penso che i cittadini abbiano un ruolo cruciale. Ritengo che non sia necessario cambiare le abitudini, bensì acquisire responsabilità del proprio comportamento verso l’ambiente che ci circonda. A tale scopo, è necessario investire sull’educazione a tutti i livelli e fornire informazioni appropriate. L’ambiente si protegge implementando un’analisi circolare di tutti gli elementi inquinanti (plastica, pesticidi, ormoni, antibiotici, metalli pesanti, etc.). Questo concetto è particolarmente importante soprattutto per i popoli dei Paesi in fase di sviluppo, dove è opportuno trasmettere in modo incisivo il concetto della sostenibilità. Sta di fatto che tutti dobbiamo assumerci la responsabilità di trattare meglio il nostro Pianeta.
In questa fase di cambiamento, a suo parere, che ruolo svolge la politica?
L’Italia sta facendo dei passi in avanti, si è arrivati al divieto di utilizzo delle plastiche tradizionali per talune applicazioni, come i sacchetti per la spesa usa e getta, e sicuramente sarà importante incentivare l’adozione di pratiche virtuose, anche semplicemente rendendo più vantaggioso dal punto di vista economico l’utilizzo delle bioplastiche rispetto a quelle tradizionali. Ma dal punto di vista politico credo sia fondamentale una spinta notevole basata su grossi investimenti in educazione, ricerca e innovazione in settori di interesse ambientale. Dobbiamo puntare sulle nuove generazioni per sviluppare nuovi concetti di progettazione di materiali e relative tecnologie, attraverso l’implementazione di una “agenda strategica, aperta e condivisa” in parallelo ad “un’economia aperta e condivisa” che vada oltre quella circolare.
Quali sfide ci aspettano nel prossimo futuro?
Quello che stiamo facendo, per quanto riguarda la ricerca, è sviluppare nuove metodiche di sintesi chimica che permettono di partire da elementi singoli (sintetici o naturali) per realizzare nuovi materiali con proprietà specifiche di durata modulabile e capaci di trasformarsi alla fine della loro utilizzazione, grazie a stimoli esterni (come, ad esempio, la luce), nei componenti iniziali: un po’ come accade con il corpo umano. Si tratta di studi che possono richiedere anche 10 o 15 anni, ma è assolutamente necessario che si adotti un approccio sistemico che superi la facciata del problema e vada più in profondità. Oggi il rischio è che la battaglia contro la plastica diventi una moda e che, come tutte le mode, superato il picco di attenzione mediatico si torni alla situazione di partenza, dimenticandosi del problema. Ribadisco, è necessario che tutti acquisiscano consapevolezza della situazione e in questo abbiamo tutti una parte di responsabilità, anche i media.