Lo scioglimento del Monte Bianco e il surriscaldamento degli oceani con l’innalzamento inedito del livello dei mari (denunciato dal nuovissimo studio degli scienziati delle Nazioni Unite dell’Ipcc) sono solo gli ultimi episodi, dopo gli incendi dell’Amazzonia e della Siberia delle scorse settimane, di una saga molto poco fantascientifica che non prevede, ad oggi, alcun lieto fine.
Tali fenomeni, come le ultime intergenerazionali e partecipatissime mobilitazioni mondiali contro gli effetti devastanti dei cambiamenti climatici, organizzate in oltre 160 Paesi del mondo e ispirate dal protagonismo dell’attivista svedese Greta Thunberg, nonché il nuovo vertice Onu a New York convocato in vista della prossima Conferenza sul Clima (che si svolgerà a dicembre in Cile), ce lo stanno dicendo con estrema chiarezza: non abbiamo più tempo da perdere. Dobbiamo salvare il nostro pianeta, non ne abbiamo un altro.
A corroborare questa tesi, almeno nel nostro Paese, il nuovo report di sistema Ispra – Snpa sul consumo di suolo, presentato in Senato alla presenza del Ministro dell’Ambiente Sergio Costa. Nell’ultimo anno, alla velocità di 2 metri quadrati al secondo e alla media di 14 ettari al giorno, in un’Italia a forte decremento demografico sono stati impermeabilizzati altri 51 chilometri quadrati di nuovo suolo naturale e agricolo. A voler rappresentare, plasticamente, questi numeri è come se, nell’ultimo anno, fosse stata coperta dal cemento una superficie più ampia dell’intero territorio di Bologna. Il nostro Paese, con il 7,6% della superficie nazionale impermeabilizzata, è uno dei primi in Europa per consumo di suolo: nel continente, infatti, la media è del 4,2%.
Sul podio delle regioni che, nel solo 2018, hanno registrato i maggiori incrementi di superfici che hanno ridotto la loro naturalità troviamo Veneto, Lombardia e Puglia, rispettivamente, con 923, 633 e 425 ettari trasformati perché destinati a nuove infrastrutture, poli logistici, strutture commerciali o volumetrie residenziali.
La dimensione urbana, nel rapporto Ispra, viene particolarmente indagata perché proprio nelle città è avvenuto, nell’ultimo anno, quasi il 50% dei nuovi cambiamenti e perché, per l’omogenea perdita di popolazione, ogni abitante ha in “carico” oltre 380 metri quadri di superfici artificiali, quasi 2 metri quadri in più ogni anno: nel solo 2018, per ogni abitante in meno, abbiamo utilizzato per nuove costruzioni 456 metri quadri. Questi dati, già allarmanti, ne trascinano un altro: nonostante gli annunci da parte di amministratori e di imprenditori di voler rinaturalizzare le nostre città attraverso la piantumazione di nuovi alberi, oggi le nostre città hanno sempre meno aree verdi. Nell’ultimo anno, infatti, si sono persi, nelle città a più alta urbanizzazione, 24 metri quadri per ogni ettaro di aree verdi.
La loro diminuzione, oltre a far crescere l’intensità di fenomeni ambientalmente dannosi come le isole di calore o le sempre più frequenti precipitazioni, determina, in modo direttamente proporzionale, una significativa riduzione dei servizi ecosistemici. Con questa espressione, sempre più significativa nel dibattito scientifico internazionale per l’urgenza di valutare insieme – mediante un approccio integrato e transettoriale – gli indicatori ambientali e sociali, si intendono i benefici multipli prodotti dalla natura ed è fondamentale valutarli rigorosamente nell’era geologica che stiamo attraversando, ridefinita “antropocene”, nella quale la pervasività dell’azione dell’uomo sovrasta la capacità della natura di rigenerare i propri cicli vitali. In Italia, quindi, la riduzione dei servizi ecosistemici, secondo le rilevazioni dell’Ispra, sta producendo danni economici pari a 2-3 miliardi di euro all’anno.
Le città, ad oggi responsabili di almeno il 70% dei gas serra globali, rischiano di ospitare, rivelano le Nazioni Unite, quasi 10 miliardi di persone entro il 2050 e di veder crescere, conseguentemente, i propri fabbisogni energetici e le proprie emissioni climalteranti in atmosfera. Un simile scenario, in assenza di una profonda e radicale conversione ecologica dei nostri modelli di produzione e di consumo, anche per l’aumento della temperatura media globale oltre i 2° entro la fine del secolo, provocherebbe l’epifania di città al limite della vivibilità. Dopo la Conferenza sul Clima di Parigi del 2015 e nell’urgenza di definire Agende Urbane a livello nazionale e locale, perciò, furono introdotti i 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (suddivisi in 169 target) attraverso i quali rileggere la contemporaneità – sotto la dimensione sociale, culturale, ambientale – per decodificarla e riqualificarla con nuove visioni, oggi assenti o labili, per consegnare un futuro accogliente e resiliente alle prossime generazioni.
Servirebbe urgentemente, dunque, non solo una nuova legge nazionale sul consumo di suolo, in grado di fare sintesi delle numerose proposte di legge oggi depositate in Parlamento e alla quale ancorare armonicamente il paradigma di una rigenerazione urbana innervata di innovazione sociale, ma una nuova coraggiosa ristrutturazione di tutta l’architettura normativa del governo del territorio, oggi obsoleta, che contribuisca a curare l’attuale “estetica del degrado”, ancora più paradossale in un Paese che è stato conosciuto nel mondo come il “Bel Paese”. La materia del governo del territorio, pertanto, proprio perché oggetto di storici e inefficaci contenziosi tra Stato e Regioni per la sua natura concorrenziale, prima andrebbe “rinazionalizzata” – anche per vincere le resistenze al cambiamento di tutte l’élite locali che agiscono nella conservazione dello status quo – e poi, istituito un Ministero specifico, affrontata, con politiche e strumenti moderni e innovativi, per decodificare la complessità socio-ambientale contemporanea.
Il Futuro sta bussando alle nostre porte, mai come in passato. E’ arrivato il momento di accoglierlo, con entusiasmo e fiducia, perché la speranza incarnata dai milioni di giovani di Fridays for Future non sia più tradita. Camminiamo tutti insieme sul sentiero della prossima Italia.