Pagano un euro di concessione e ne guadagnano 200. Complice la loro capacità di aver condizionato il mercato, al punto che noi italiani siamo i secondi consumatori al mondo di acqua minerale in bottiglia dopo il Messico, nonostante l’elevata qualità dell’acqua di rubinetto.
Sono le 126 aziende italiane, con alla testa diversi gruppi multinazionali, che lasciano circa 20 milioni nelle casse delle Regioni per acquisire il diritto a imbottigliare le ottime acque italiane e venderle in tutto il mondo: un affare che vale circa 3 miliardi di euro ma che ha molti punti critici.
Quello dell’acqua minerale è un business enorme che utilizza annualmente 16 miliardi di metri cubi di acqua dalle nostre sorgenti. É un mercato concentrato nelle mani di pochi: il 68% dell’acqua italiana è appannaggio di 10 produttori. Questi gruppi pagano canoni di concessione irrisori – 0,00084 centesimi a litro – e molte di queste concessioni si basano sul criterio della superficie concessa e non sulla quantità di acqua effettivamente captata, il cui quantitativo spesso non viene neanche comunicato alle Regioni, che nella migliore delle ipotesi si accontentano di controlli a campione. In molti casi, dunque, non sappiamo neanche con precisione quanta acqua venga estratta e imbottigliata.
Nelle casse delle Regioni entrano, in questo modo, circa 19-20 milioni l’anno, cifra che corrisponde allo 0,68% del fatturato medio dei grandi gruppi, a fronte di un quantitativo d’acqua prelevato ingente e non del tutto quantificabile. In pratica, dicevamo, per ogni euro speso in concessioni questi gruppi ne incassano quasi 200: utili stratosferici derivanti dallo sfruttamento di una risorsa non infinita e che appartiene a tutti noi, senza contare il peso ambientale dei milioni di bottiglie in gran parte di plastica che si mandano in giro, quasi sempre su camion, per l’Italia e per il mondo.
Perché allora non rivedere questi contratti, stipulati spesso con trattative private e quindi poco trasparenti, per far incassare alle Regioni cifre da reinvestire, per esempio, in servizi utili ai cittadini?
Se portassimo il costo per il concessionario a 0,02 centesimi al litro (ossia alla soglia minima di 20 euro al metro cubo), l’incasso per le Regioni, attraverso i canoni di concessione, passerebbe dagli attuali 19 milioni a 3 miliardi. Non si graverebbe eccessivamente sui concessionari e sull’indotto, si favorirebbe un uso più consapevole e magari trasparente della risorsa e, soprattutto, la collettività trarrebbe un vantaggio da quello che oggi è soltanto un affare che avvantaggia pochi sfruttando risorse di tutti.
Non a caso la nostra proposta di legge per la gestione pubblica e partecipata delle risorse idriche ambisce a intervenire anche sul settore delle minerali: vogliamo rivedere i criteri delle concessioni, misurare le quantità prelevate e gli impatti prodotti e far pagare il giusto alle compagnie, portando nuove risorse alle Regioni proprio per migliorare il servizio idrico di tutti i cittadini.
Vogliamo ridurre la durata delle concessioni da 30 a 20 anni, con un aggiornamento del canone ogni 3 anni, per un maggior controllo del settore. E la concessione potrà essere revocata se vengono accertati problemi qualitativi o carenza della risorsa: in epoca di crisi climatica e siccità non possiamo permetterci sprechi, né possiamo tollerare rischi per la salute dei cittadini. Tutti i prelievi d’acqua, compreso quello di acque minerali, si dovranno misurare tramite contatore.
Saranno le Regioni a definire il canone per l’utilizzo delle acque minerali per poi rinvestirlo nel miglioramento del servizio idrico integrato, ma vogliamo stabilire una soglia minima, in modo che di dia il giusto valore alla risorsa acqua. Per riformare il sistema idrico nazionale dobbiamo intervenire su più fronti, e noi ripetiamo sempre che gli utili non devono arricchire pochi ma essere reinvestiti a vantaggio di tutti. Questo vale a maggior ragione per la evidente anomalia del settore delle minerali, perché anche in questo caso si tratta acqua pubblica e di un diritto da garantire a tutti.