La testimonianza e gli scioperi per il clima della giovane studentessa svedese Greta Thunberg hanno contribuito ad accendere i riflettori su un movimento che ha radici antiche e che in questi mesi ha dimostrato di essere radicato in tutto il Pianeta e in grado di mobilitare milioni di giovani.
Ma perché queste ragazze e questi ragazzi, che hanno trascinato in piazza anche tanti adulti, protestano in tutto il mondo contro i cambiamenti climatici? Chi sono e cosa chiedono ai governi?
Nei 185 Paesi in cui si sono svolte manifestazioni, le proteste hanno avuto spesso un obiettivo di portata nazionale che si affiancava a quello più generale e generico della richiesta di ridurre le emissioni inquinanti che provocano l’effetto serra. Questo è un elemento positivo e per certi versi innovativo, perché storicamente i movimenti che si battevano contro il climate change spingevano molto sulla diplomazia internazionale e sulla necessità di accordi vincolanti tra Paesi, mentre erano meno pressanti sui singoli governi e sulle politiche che autonomamente possono mettere in campo. Le piazze di oggi invece, complici anche i risultati non sempre entusiasmanti dei vertici ONU, insistono su entrambi i fronti: chiedono interventi contro l’innalzamento del livello del mare nelle Isole Salomone, lottano contro i rifiuti tossici in Sudafrica, combattono l’inquinamento atmosferico e i rifiuti di plastica in India e contestano il massiccio uso del carbone in Australia.
Tante battaglie locali tenute insieme in un’unica cornice: la necessità di un’immediata accelerazione delle misure per ridurre le emissioni e stabilizzare il clima.
“Siamo qui per rivendicare il nostro diritto a vivere, il nostro diritto a respirare e il nostro diritto ad esistere, cosa che ci viene negata da un sistema politico inefficiente che dà più deferenza agli obiettivi industriali e finanziari piuttosto che agli standard ambientali”, ha detto la giovane manifestante Aman Sharma, che protestava a Delhi.
In questi giovani c’è dunque la consapevolezza che non si sta combattendo una battaglia astratta o ideologica: “Siamo in trincea nella battaglia per garantire un futuro alla nostra generazione” dicevano i ragazzi che si sono concentrati in piazza della Repubblica per sfilare per le strade di Roma a fine settembre. C’è la consapevolezza che è rimasto poco più di un decennio per agire e che la mancata azione porterà a gradi conseguenze per la nostra vita quotidiana nei prossimi decenni: città sommerse, scarsità di cibo e acqua, siccità da un lato e alluvioni dall’altro, aumento della povertà e delle migrazioni forzate.
Il “global strike” è però iniziato nelle isole del Pacifico, dove i cittadini hanno ripetutamente chiesto alle nazioni più ricche di fare di più per prevenire l’innalzamento del livello del mare che porterebbe la loro terra ad essere completamente sommersa. Le manifestazioni si sono diffuse in tutta l’Australia, il più grande esportatore mondiale di carbone e gas naturale liquido, aprendo un dibattito analogo e opposto a quello che si è aperto in Italia circa lo sciopero degli studenti: mentre il nostro Ministro all’Istruzione, Lorenzo Fioramonti, chiedeva ai presidi di prendere nella dovuta considerazione le valide motivazioni dell’assenza, il Ministro delle Finanze australiano, Mathias Cormann, ha detto che gli studenti avrebbero dovuto rimanere in classe, scatenando la reazione degli studenti, secondo i quali se tanti politici avessero fatto il proprio dovere lavorando nelle istituzioni per affrontare il problema, milioni di giovani avrebbero evitato di rinunciare a un giorno di scuola per far sentire la loro voce.
Anche a Tokyo e in altre città del Giappone la protesta per la “giustizia climatica” si è fatta sentire e vedere. In Cina niente cortei invece, mentre gli studenti di Taiwan hanno approfittato della protesta per fare pressing sui candidati alle presidenziali. Pure l’Africa ha fatto la propria parte nella mobilitazione dei Fridays for Future: dai Nairobi a Johannesburg, in tante città gruppi di manifestanti più o meno nutriti, hanno urlato a gran voce che per il loro continente che questa è l’ultima chiamata.
Una consapevolezza che unisce i giovani di tutti i continenti, i quali invitano i loro governanti a dare ascolto agli scienziati. Un paradosso che fa ben sperare, perché il futuro è nelle mani di queste ragazze e questi ragazzi.