Concessioni pluridecennali, regimi tariffari vantaggiosi, manutenzioni “allegre” o inesistenti, controlli sugli investimenti nulli. Nell’inquadrare i big della finanza, che come i Benetton sono entrati nella gestione delle autostrade italiane, torna alla mente zio Paperone intento a tuffarsi in una montagna di monete d’oro.
La “compagnia del casello”, dagli anni ’90 a oggi, ha macinato miliardi su miliardi indisturbata, grazie alla connivenza di una politica prostrata e in molti casi complice.
Per capire come i Benetton e altri gruppi finanziari abbiano fatto delle autostrade le loro miniere d’oro, bisogna per forza approfondire i continui flussi di denaro che, con percorso inverso, da essi è arrivato nelle casse dei partiti politici che hanno dominato la scena degli ultimi trent’anni.
Prendiamo, appunto, la dinastia Benetton.
Senza dare mai dell’occhio, i maestri del pullover sono da sempre di manica larga nei confronti della politica. Puntualmente contraccambiati. Soprattutto dopo la breve parentesi da senatore del numero uno della dinastia Luciano nelle file del Partito Repubblicano (biennio ’92-’94): un “do ut des” vorticoso, che si intensifica nel 1997.
È il ministro dei Lavori Pubblici dell’allora governo Prodi I, Paolo Costa, a spianare la strada per la privatizzazione della rete autostradale, che avrà il suo momento clou con l’accordo dorato del 1999 siglato dai Benetton. Ebbene: negli anni a venire, Costa non solo verrà ricompensato dalla dinasty veneta, ma diventerà praticamente uno di famiglia. Fino all’incoronazione del 2010 come presidente di Spea Engineering, controllata di Autostrade per l’Italia.
Il resto è storia.
Nel 2006, a una manciata di giorni dalle elezioni politiche, Autostrade fa arrivare 150 mila euro nel “portafoglio” di Alleanza Nazionale.
Seppur di misura, però, le elezioni le vince il centrosinistra, così un mese dopo il voto arrivano 150 mila euro anche al “Comitato per Prodi 2006”. Un mese dopo ancora, tocca alla Margherita: via altri 150 mila euro.
Una perfetta par condicio “pecuniaria”, che continua anche negli anni successivi. Dai Ds a Forza Italia, dalla Lega di Bossi all’Udeur di Mastella, moneta sonante ce n’è sempre per tutti e in abbondanza.
Intanto l’escalation dei pedaggi continua, i lavori di ammodernamento della rete e le manutenzioni diminuiscono, gli utili di Autostrade si impennano. Nel 2008 a palazzo Chigi torna a troneggiare Berlusconi, che alla chetichella vara subito un “salva-Benetton” per togliere ad Autostrade l’obbligo di maggiori controlli voluto pochi mesi prima da Antonio Di Pietro. Col voto della Lega, l’albero della cuccagna riprende a crescere, e diventa così rigoglioso che nel 2015 il governo Renzi pensa persino di prolungare il “Bengodi” di ulteriori quattro anni, dal 2038 al 2042, per fortuna invano.
Ovviamente lo stesso discorso vale per tutti i signori del casello.
Sono i primi anni duemila quando i Gavio iniziano a foraggiare partiti a destra e a manca, tanto è succulento il “buffet” delle autostrade italiane. Nel quale ancora oggi il gruppo finanziario della famiglia piemontese continua a mietere quattrini. Al pari dei Toto, che controllano la nota Strada dei Parchi Spa, i cui finanziamenti ai partiti politici vanno oltre ogni colore, bandiera o steccato ideologico, tanto da toccare persino compagini “meteora” come Democrazia europea all’alba del nuovo millennio.
Insomma, una mangiatoia senza pari. Dove la politica in cambio di oboli sistematici stende tappeti rossi, e nella quale i tycoon dell’asfalto ingrassano a suon di utili miliardari.
A questi link le due puntate precedenti di “AutostradeStory”:
1) La Lega come sempre dalla parte dei più forti