Le storie non necessariamente devono essere raccontate dalle persone. Talvolta vengono narrate dagli edifici che ci circondano, da storiche costruzioni troppo spesso abbandonate, di cui conosciamo poco o nulla. In questo confine si inserisce la rete di Open House Worldwide, il festival dell’architettura globale, evento che nasce a Londra nel 1992 e che a distanza di 28 anni copre 46 città in tutto il mondo tra cui Torino, Roma, Milano e Napoli.
Open House ha come fine quello di “coinvolgere i cittadini e far comprendere quanto una migliore progettazione degli spazi urbani influisca positivamente sulla qualità della vita”. Uno strumento che parla ai visitatori delle diverse sfumature dell’architettura, di edifici storici e riscoperta degli spazi, di beni confiscati e di rigenerazione urbana.
Ne abbiamo parlato con Stefano Fedele, co-direttore di Open House Napoli.
• La prima edizione di Open House a Napoli ha registrato 16mila ingressi nelle varie location. La città attendeva questo evento per scoprire le sue bellezze, troppo spesso confinate dietro cancelli e catenacci.
Napoli ha finalmente accolto Open House, un evento con trent’anni di storia, nato a Londra e adottato da quasi cinquanta metropoli nei cinque continenti. Un modello consolidato, la cui vocazione è portare l’architettura ai cittadini, con uno stile di racconto puntuale, ma affabile e aperto a tutti. È un evento inclusivo, destinato ai cittadini, che mira alla partecipazione e alla conoscenza. Questo processo si realizza da un lato aprendo gli spazi negati della città, anche cantieri che raccontano la metropoli del futuro, o case private di pregio architettonico. Dall’altro dando alle persone occasioni e strumenti per percepire in modo nuovo a luoghi che non guardiamo mai davvero. Come il Palazzo delle Poste di Vaccaro e Franzi, riconosciuto capolavoro dell’architettura italiana del Novecento su cui normalmente gettiamo un’occhiata distratta. Conoscere meglio significa irrobustire il nostro senso identitario e di appartenenza. Open House è un esercizio di cultura e cittadinanza.
• Parliamo delle location. Dalla Casa del Portuale a Brin 69, dai cantieri delle metro ai beni confiscati come Villa La Gloriette. Tutti spazi riscoperti, location lontane dalle logiche del turismo di massa
Parlare diffusamente del programma sarebbe impossibile, si tratta di cento esperienze diverse. Siamo riusciti a dare una rappresentazione completa delle dieci municipalità, raccordando periferie e centro, dall’estremo ovest di Nisida – l’isolotto sede dell’istituto penitenziario minorile ed eden paesaggistico – da est a ovest, un centro di produzione artistico-culturale, nato dalla rifunzionalizzazione di una scuola.
Abbiamo raccontato una città con oltre 25 secoli di storia, caratterizzata da una spiccata stratificazione culturale e architettonica.
Prendiamo la Chiesa di Sant’Aniello a Caponapoli, frequentata pochissimo: a leggerla in verticale si ripercorre l’intera storia della città, le mura greche e romane sotto l’attuale livello stradale, poi la chiesa del Cinquecento, gli interventi nei secoli successivi, fino al recente intervento di restauro che ha reintegrato le ferite dei bombardamenti bellici e del terremoto del 1980. Poi ci sono gioielli come Villa Oro di Luigi Cosenza, aggrappata a uno stretto costone tufaceo che guarda sul golfo, una costruzione con linee essenziali e razionali che è un capolavoro di integrazione tra architettura e paesaggio. Lei cita la Gloriette: era la villa bunker del boss Michele Zaza a Posillipo, oggi è un bene confiscato alle mafie, sede di un centro che accoglie persone vulnerabili. Un caso in cui la rigenerazione dei luoghi non è strettamente architettonica ma passa attraverso gli usi che ne fanno le persone, che portano vita e nuova identità in spazi negati.
• Le nostre città sono serbatoi di bellezza alla luce del sole, dove c’è tanto da scoprire, spesso a “costo zero”.
La lunga e tortuosa storia di dominazioni di Napoli ha come risultato una enorme complessità topografica, il che significa anche la presenza di un patrimonio inesauribile. Non facile da conoscere nella sua integrità, e difficile da valorizzare adeguatamente. In questo senso c’è da confidare nell’adozione di nuovi strumenti, penso alla Convenzione di Faro – il disegno di legge di ratifica, approvato dal Senato, è in discussione alla Camera – un documento del Consiglio d’Europa che introduce il concetto di eredità culturale, individuando il diritto al patrimonio culturale materiale e immateriale, ma anche la responsabilità personale e collettiva verso di esso, perché questo patrimonio è cruciale per la crescita sostenibile del territorio. Il “costo zero” è un concetto più scivoloso. Open House, a Napoli come in ogni altro luogo, è un evento non profit, senza costi per i cittadini. Ma per essere tale ha bisogno dell’attivazione di una rete di soggetti pubblici e privati consapevoli dell’importanza della cultura e della sua centralità anche in chiave di sviluppo. La cultura crea economia ed enorme valore aggiunto: ma non è a costo zero e non può affidarsi solo alla partecipazione volontaria.
• Torino, Milano, Roma, Napoli. Tutte città in cui la rigenerazione urbana sta diventando un vero e proprio paradigma per concepire gli spazi
Se si guarda al Rapporto 2019 Ispra-Snpa sul consumo del suolo in Italia si vede che, soprattutto nelle aree urbane, c’è una crescita dell’edificazione a scapito delle aree verdi, che vanno sempre più assottigliandosi. Quindi, senza alcun dubbio la rigenerazione è una risposta efficace, perché non consuma suolo e aiuta a ridisegnare città che, come Napoli, vivono già, soprattutto nel centro storico, una vera e propria congestione edilizia. Anche perché rigenerazione non significa solo riqualificazione fisica degli edifici, ma vuol dire anche incidere sul tessuto sociale intervenendo sulla relazione tra patrimonio da recuperare e cittadini, attivamente coinvolti in un processo di partecipazione. La rigenerazione così può incidere profondamente sull’identità del territorio, proprio per le sue ricadute di ordine sociale, economico e ambientale.