Arabi, palestinesi ed ebrei israeliani si contendono da decenni, con violenza e guerre sanguinose, la sovranità del territorio storico della Palestina – terra santa per le tre religioni monoteiste – in cui anticamente le due popolazioni (maggioranza ebrea e minoranza araba) convissero in pace prima della diaspora degli ebrei d’epoca babilonese e romana.
Dopo la Prima Guerra Mondiale, nell’ex provincia ottomana di Palestina sotto mandato britannico – popolata da poche centinaia di migliaia di arabi e da una piccola comunità di ebrei e cristiani – inizia, con il sostegno di Londra (dichiarazione Balfour nel 1917), l’immigrazione degli ebrei organizzata dal movimento sionista che punta a costruire in Palestina uno Stato ebraico dove tutti gli ebrei della diaspora possano trovare rifugio e pace dopo secoli di persecuzioni. L’amministrazione coloniale britannica favorisce economicamente gli immigrati ebrei, creando emarginazione e malcontento nella popolazione araba.
Negli anni ’30, con il dilagare del nazismo in Europa, il flusso migratorio ebraico cresce, insieme all’ostilità degli arabi che sfocia nella sanguinosa rivolta del 1936-1939, alimentata dal Gran Muftì di Gerusalemme Amin al-Husseini, fervente esponente antisemita appartenente al movimento islamico internazionale dei Fratelli Musulmani. I ribelli arabi si scontrano con le milizie di auto-difesa ebraiche sostenute dai soldati britannici: la durissima repressione della rivolta (5 mila arabi morti e 12 mila imprigionati) getta le basi di future violenze.
Alla fine della Seconda Guerra mondiale, l’ONU propone la partizione della Palestina in due Stati indipendenti, uno arabo e l’altro ebraico, con Gerusalemme sotto amministrazione internazionale. Gli arabi rifiutano il piano e quando nel 1948 viene proclamato lo Stato di Israele, scoppia la prima guerra arabo-israeliana: gli eserciti di Egitto, Giordania, Siria, Iraq, Libano, Arabia Saudita e Yemen vengono respinti dal neonato esercito israeliano, che anzi occupa buona parte del territorio assegnato dall’ONU allo Stato arabo, costringendo all’esodo 750mila palestinesi. L’ONU condanna e chiede la restituzione o la compensazione (Risoluzione 149).
Nel 1967, nel corso della fulminea guerra dei sei giorni lanciata da Israele, vengono occupate anche la Striscia di Gaza e la penisola del Sinai (restituita all’Egitto nel 1978), tutta la Cisgiordania, Gerusalemme est e le alture del Golan. L’ONU condanna e chiede il ritiro israeliano dai nuovi territori occupati (Risoluzione 242).
La successiva guerra dello Yom Kippur (1973) con Egitto e Siria, segna la fine della degli interventi armati degli Stati arabi nella questione palestinese, che diventa monopolio dell’OLP di Yasser Arafat – ammessa come rappresentante dei palestinesi all’ONU nel 1974 – che persegue la liberazione di tutta la Palestina e la creazione di uno Stato laico e democratico bi-nazionale con capitale Gerusalemme.
Nel 1982 Israele occupa il Libano per colpire a Beirut il quartier generale dell’OLP. La brutalità dell’intervento militare israeliano (segnato dalla complicità nel massacro di migliaia di profughi palestinesi – vecchi, donne e bambini compresi – nei campi di Sabra e Shatila) si accompagna all’inasprimento dell’occupazione militare nei territori palestinesi, con gravi violazioni dei diritti umani condannate dall’ONU.
La tensione nei territori sale fino allo scoppio della prima intifada contro le forze israeliane (1987-1993) che genera ulteriore repressione e violenza (oltre 2 mila morti palestinesi in sei anni). L’anno dopo, l’OLP proclama la nascita dello Stato di Palestina in Gisgiordania e Gaza, accettando di fatto l’esistenza di Israele – posizione rifiutata da gruppi palestinesi più estremisti come Hamas.
Il riconoscimento dello Stato di Israele viene ufficializzato dall’OLP nel 1993 con gli accordi di pace di Oslo tra Arafat e il premier israeliano Yitzhak Rabin, in cambio del riconoscimento dell’autogoverno dell’OLP (che diventa ANP – Autorità Nazionale Palestinese) nella Striscia di Gaza e in parte della Cisgiordania e la previsione di un graduale ritiro delle truppe di occupazione che portino alla nascita di uno Stato palestinese sui confini pre-1967 (Gaza e tutta la Cisgiordania) con Gerusalemme est capitale.
Nonostante gli attentati compiuti dai palestinesi e dagli israeliani contrari alla pace, il processo di pace di Oslo prosegue per tutti gli anni ’90 con il ritiro a tappe di Israele dalla Cisgiordania. Fino alla rottura del 2000 a Camp David tra Arafat e il premier israeliano Barak (divisi sulle questioni del Monte del Tempio e del ritorno dei profughi), seguita dallo scoppio della seconda intifada, segnata da una lunga serie di attentati palestinesi. Nel 2002, il premier israeliano Sharon risponde con una violenta operazione militare in Cisgiordania (Scudo Difensivo, con centinaia di civili palestinesi uccisi) e con la costruzione del muro.
Nel 2005, dopo la morte di Arafat, la successione del moderato Abu Mazen alla guida dell’OLP spinge Israele a ritirarsi dalla Striscia di Gaza, che però cade sotto il controllo dei fondamentalisti di Hamas. La tensione sale fino a quando, a fine 2008, in riposta al lancio di razzi dalla Striscia, il premier israeliano Olmert lancia un’offensiva militare su Gaza contro Hamas (Piombo Fuso, con mille civili palestinesi uccisi). Lo stallo negoziale prosegue negli anni successivi, con una nuova operazione militare israeliana a Gaza ordinata dal premier Netanyahu nel 2014 (Margine Protettivo, 2 mila civili palestinesi uccisi) e con l’ampliamento degli insediamenti israeliani illegali in Cisgiordania, condannato dall’ONU (Risoluzione 2334).
A inizio 2020 il presidente Trump, d’accordo con Netanyahu, propone un piano di pace che scardina tutti i pilastri di decenni di negoziati, a partire da quello dei due Stati. Il piano Trump prevede l’annessione israeliana di buona parte della Cisgiordania (tutti gli insediamenti illegali e l’intera Valle del Giordano) e la sua sovranità esclusiva su Gerusalemme, che diventerebbe capitale di Israele. Ai palestinesi viene offerto un autogoverno smilitarizzato (disarmo di Hamas) e senza controllo delle frontiere delle enclaves non occupate della Cisgiordania e di Gaza, in cambio di 50 miliardi di dollari per lo sviluppo. Il piano viene giudicato una provocazione dai palestinesi e rifiutato.
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