La società del XXI secolo vive un grande paradosso: è iper-connessa, digitale ed alla ricerca di efficienza, ma si basa su modelli di lavoro pensati nel secolo scorso e non più adatti al contesto in cui viviamo. Potremo chiamarlo il “paradosso del bit”, milioni di persone si spostano ogni giorno per raggiungere il proprio luogo di lavoro e poi iniziano a scambiarsi informazioni digitali tramite le e-mail, parlano al telefono (o si video chiamano) e condividono documenti grazie alle più moderne tecnologie digitali.
Perché impieghiamo tutta questa energia (e queste risorse) per fare delle azioni che potremmo svolgere anche da casa? È una domanda che forse trova risposta in un imprinting che tutti abbiamo: si confonde l’attività lavorativa con il luogo da cui si svolge l’azione. Una e-mail ha più valore se inviata stando in un ufficio piuttosto che in un altro luogo? Evidentemente no, ma il pregiudizio e le barriere culturali che ancora ci sono limitano lo sviluppo del lavoro agile.
Lo smart working, ovvero la possibilità di lavorare anche al di fuori dell’ufficio, è fenomeno in costante crescita, ma che a causa di queste resistenze culturali non ha ancora espresso tutte le sue potenzialità. Dai dati dell’Osservatorio sul lavoro agile del Politecnico di Milano si stima che in Italia, a fronte di oltre 23 milioni di occupati ci siano 570.000 lavoratori agili, meno del 3% della popolazione totale.
Eppure i benefici del lavoro da remoto sono tangibili e raggiungibili a fronte di investimenti contenuti: risparmiare tempo evitando spostamenti spesso inutili, conviene alle persone, all’ambiente ed alle aziende. Da una ricerca dell’Università di Stanford su un’azienda Cinese del settore terziario, è emerso un aumento di produttività del 13% derivante dall’introduzione del lavoro da remoto. Anche in Italia si constata che le aziende smart hanno lavoratori più produttivi e soddisfatti. Conciliare vita e lavoro si può, e conviene a tutti.
Come fare quindi a passare dal 3% di lavoratori smart a percentuali più significative?
Oggi lo smart working è sperimentato dal 58% delle grandi aziende, dal 12% delle PA, ma è residuale in settori molto importanti quali la sanità e la scuola, settori che coinvolgono circa 20 milioni tra cittadini e lavoratori. Agendo su questi settori si può diffondere la cultura del lavoro agile utilizzando un effetto moltiplicatore che abbatta le barriere culturali e renda il lavoro agile il “new normal” del mondo del lavoro.
Passare da un ristretto numero di “aziende smart” ad un’intera società abituata a lavorare anche da remoto rende inoltre una nazione intrinsecamente più resiliente, ed in grado di fronteggiare meglio le emergenze. Pensiamo all’uso del lavoro agile nella città di Genova dopo il crollo del ponte Morandi o, più di recente, alla Cina che sta affrontando una grave emergenza sanitaria che impedisce alle persone di recarsi a scuola o al lavoro.
In questi mesi nei paesi orientali, anche se per cause di forza maggiore, è in atto il più grande esperimento di lavoro a distanza della storia. Le città sono deserte, ma nei settori dei servizi si lavora a pieno regime, ma da casa.
E’ forse l’inizio di un nuovo mondo più smart ed ecosostenibile?