Il CoronaEquity sarà una misura molto semplice: se in un’azienda fino a 250 dipendenti l’imprenditore intende fare un aumento di capitale, lo Stato glielo raddoppia. Diventa un azionista di supporto, senza entrare nella gestione ed esce dopo qualche anno senza aggravi per l’impresa.
Se l’impresa investe su di sé, lo Stato investe sull’impresa.
Questa è la proposta a cui stiamo lavorando e di cui ho parlato nella mia intervista a La Stampa:
«Chiamiamolo CoronaEquity, sarà una misura molto semplice: se in un’azienda fino a 250 dipendenti l’imprenditore intende fare un aumento di capitale, lo Stato glielo raddoppia. Diventa un azionista di supporto, con l’obiettivo poi di uscire dopo qualche anno, e senza aggravi per l’impresa. Se i soci mettono 100mila euro, lo Stato ce ne mette fino ad altri 100mila. Il meccanismo lo si sta perfezionando, ma il senso è che quando l’impresa investe su sé stessa lo Stato investe sull’impresa».
Viceministro Stefano Buffagni, con questo piano coronaequity lo Stato diventa anche gestore?
BUFFAGNI: «No, non si intende gestire proprio nulla. L’idea è quella di una presenza temporanea, come un “fondo di minoranze”, lo Stato uscirà senza obbligare l’impresa a riacquistare la quota. Gli aspetti tecnici li stiamo definendo, ma il senso è che il supporto al capitale sarà “rimborsato” allo Stato attraverso vari meccanismi virtuosi: ad esempio, considerando gli utili futuri e il maggior gettito fiscale garantito. Alla fine del percorso lo Stato esce dall’azienda, che però sarà più patrimonializzata, più forte, con un migliore rating aziendale e bancario. Patuanelli e Gualtieri stanno lavorando intensamente».
Insomma, non pensate a un remake del modello Iri.
«Quello è un modello del passato. Qui c’è uno Stato amico, partner, non oppressivo, che aiuta le imprese a crescere, a patrimonializzarsi, a strutturarsi, a crescere organizzativamente, a entrare in filiere di valore più ricche, ad esportare».
Quanti soldi ci metterete?
«Quel che servirà. Fa parte di un pacchetto che vale più di due miliardi di risorse per le imprese, comprese misure mirate per le aziende startup».
Questo piano riguarda le aziende piccole e medie fino a 250 dipendenti. E le altre?
«Il ministero dello Sviluppo economico segue le imprese piccole e medie. Per quelle di maggiori dimensioni, oltre al Fondo centrale di garanzia, con il Mef attraverso la Cdp, si pensa ad altre iniziative con un fondo a leva in grado di attivare fino a 30-40 miliardi. In tutto – tra aiuti a fondo perduto e altra liquidità – per le imprese mettiamo 20 miliardi».
Ci sono state proteste per le lentezze nell’erogazione dei soldi del decreto liquidità.
«Le banche sono un po’ un collo di bottiglia, ma hanno ricevuto una montagna di richieste. Soltanto oggi sono arrivate 7.200 domande, perché le grandi banche finalmente hanno messo a punto le procedure necessarie. Tante aziende medio-piccole stanno ricevendo proprio ora i soldi sui loro conti correnti, ne siamo molto contenti. Abbiamo attivato una mail per avere le segnalazioni degli imprenditori, ma intanto i soldi stanno arrivando. E non scordiamoci che è partito tutto solo una settimana fa».
Altre misure in cantiere?
«Stiamo ragionando su crediti d’imposta per il turismo, con risorse per più di 2 miliardi, aiuti a fondo perduto, e un’accelerazione sull’infrastruttura digitale su cui stiamo scontando un ritardo mostruoso. Ci sarà un altro sostegno per le partite Iva, aiuti anche per il terzo settore, e misure per accelerare gli investimenti, sulla base del modello del ponte di Genova: autorizzazione in anticipo e controlli ex post».
Gli accordi europei del premier Conte: il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto?
«Il bicchiere è mezzo pieno a patto che si corra. Il progetto del Recovery Fund è un progetto che condivido. Le altre polemiche non mi interessano, dobbiamo far ripartire il Paese»