“Entro il 2030, ridurre in modo sostanziale la produzione di rifiuti attraverso la prevenzione, la riduzione, il riciclo e il riutilizzo”: è questo uno degli obiettivi più importanti cui guarda l’Onu. Non si parla di “smaltimento”, non si cercano metodi alternativi per trattare i rifiuti, l’Agenda 2030, in nessun modo, fa riferimento ad inceneritori o termovalorizzatori. E punta nettamente sulla logica delle “3R” dell’economia circolare: riduzione, riciclo, riutilizzo.
A ben guardare, però, sembra che la pura e semplice applicazione dei principi cardine dell’economia circolare, non faccia altro che scontarsi con molte delle realtà territoriali italiane, per lo più caratterizzate da situazioni emergenziali legate ad una cattiva gestione dei rifiuti. Pensiamo ai roghi, che per anni hanno interessato la Campania, o alla gestione emergenziale che in Sicilia si protrae da decenni.
Ecco che allora, a fronte di tali situazioni apparentemente senza via d’uscita, torna prepotentemente a farsi vivo il tema degli inceneritori, con un ormai sempre più ricorrente esempio “virtuoso” su tutti: Copenhill, l’inceneritore di Cophenaghen, costato 520 milioni di euro e sul quale è addirittura possibile sciare. La “bellezza” e l’attrattività di questo impianto appaiono nettamente superiori rispetto a qualsiasi logica di tutela dell’ambiente e della salute e conducono persino ad affermazione del tipo “le tecnologie d’avanguardia consentono all’inceneritore di funzionare a impatto zero: dai camini uscirà infatti solo vapore acqueo”. Niente diossina, niente ossido d’azoto, solo vapore. Falsità, volte a legittimare la costruzione di impianti che, seppur identificati con il termine più soft di “termovalorizzatori”, costituiscono un grave pericolo per l’uomo e per l’ambiente, essendo causa di aumento di tumori, depauperamento di risorse per le energie pulite e rinnovabili ed essendo, paradossalmente, anche causa di aumento della produzione di rifiuti. E sì, perché un inceneritore deve essere “nutrito”. L’ex ministra per l’ambiente danese, Ida Auken, metteva in risalto una questione fondamentale: “Il principale problema dell’impianto è che semplicemente non ci sono abbastanza rifiuti da bruciare. L’inceneritore ha una capacità complessiva di 500 mila tonnellate di rifiuti annue, ma i cinque comuni proprietari dell’impianto non producono abbastanza immondizia per riempire i forni”.
Un dato rilevante, in questo senso, è contenuto in un rapporto del Ministero dell’ambiente danese: dal 2013 al 2016 l’importazione di combustibili da rifiuto è aumentata del 118 %.
È palese, dunque, che la costruzione di nuovi inceneritori andrebbe, in primo luogo, ad ostacolare la prospettiva di un’economia circolare, principalmente caratterizzata da una riduzione della produzione di rifiuti, progettati per poter essere correttamente differenziati e poi riciclati e recuperati.
Pensiamo che già nel 2017, quindi ancor prima dell’entrata in vigore del pacchetto sull’economia circolare avvenuta il 4 luglio 2018, la Commissione Europea, con la relazione del 26 gennaio indirizzata al Parlamento e al Consiglio invitava gli Stati membri a non investire sull’incenerimento dei rifiuti e sul recupero di energia: “il finanziamento pubblico non dovrebbe favorire la creazione di sovraccapacità, come gli inceneritori, per il trattamento di rifiuti non riciclabili. In proposito va ricordato che la quantità dei rifiuti non differenziati utilizzati come materia prima nei processi di termovalorizzazione dovrebbe diminuire a seguito degli obblighi di raccolta differenziata e dei più ambiziosi obiettivi di riciclaggio dell’UE. Per questi motivi si invitano gli Stati membri a ridurre gradualmente il sostegno pubblico per il recupero di energia da rifiuti non differenziati. Nelle aree dell’UE dove si registra una sovraccapacità di incenerimento, la Commissione parla esplicitamente di abolire gradualmente “i regimi di sostegno per l’incenerimento dei rifiuti, reindirizzare gli aiuti verso processi che occupano posti più alti nella gerarchia dei rifiuti, introdurre una moratoria sui nuovi impianti e smantellare quelli più vecchi”
E allora è chiaro che l’inceneritore non può più essere la soluzione, trattandosi di un modello sorpassato nella visone europea e, in Italia soprattutto, anche fonte di numerosi illeciti ambientali legati alla gestione malavitosa dei rifiuti.
Se pensiamo, poi, che le norme in materia ambientale prevedono che l’80% dei rifiuti prodotti debba costituire rifiuto differenziato, mentre per il residuo 20% si apre la strada della discarica o inceneritore, ci si chiede in che termini un imprenditore possa trarre vantaggio dalla costruzione di un inceneritore che dovrà necessariamente essere alimentato dai rifiuti. La risposta sta nel “virtuoso” sistema dell’inceneritore danese: l’importazione di rifiuti. E questo è il rischio concreto che potrebbe correre la Sicilia, in cui si pensa di costruire un inceneritore tra l’oasi del Simeto, l’area protetta dei Pantani Gelsari e il Biviere di Lentini (tra Catania e Siracusa) la cui portata sarebbe di gran lunga superiore rispetto al reale fabbisogno territoriale.
È chiaro, dunque, che, affinché si raggiungano gli obiettivi ambientali europei, bisogna ripartire da una corretta valorizzazione dei rifiuti, facendo in modo che prodotti e materiali rimangano in circolo più a lungo, progettando e scegliendo prodotti durevoli che garantiscano un basso consumo di energia, favorendo comportamenti virtuosi come il riutilizzo e il riciclo, valorizzando i materiali a fine ciclo e limitando il ricorso a materie prime vergini.
“Quando arriva l’inceneritore, o termovalorizzatore, il ciclo dei rifiuti è fallito” (Sergio Costa, Ministro per l’Ambiente).