In un momento storico in cui la globalizzazione ha prodotto un superamento degli Stati che non sono stati in grado di rispondere alla spersonalizzazione dell’economia che si è trasformata in finanza globale ed in beni immateriali, la risposta non può che essere quelle di rimettere al centro l’Uomo inteso sia come collettività che come animale sociale. La competizione tout court se non regolata strenuamente e la produzione di valore se non controllata dallo Stato nei settori strategici, produce, come ha prodotto, un deperimento dei diritti delle persone a favore dell’accumulazione del capitale. Il mantra di base è stato il postulato che solo la competizione potesse far evolvere la società ma questo ha prodotto uno scadimento qualitativo delle relazioni tra individui. Le persone hanno riversato su di loro l’idea meccanicistica della produzione. La identificazione dell’Uomo con il lavoro, soprattutto per gli strati più esposti alla competizione (liberi professionisti, artigiani, commercianti, piccoli imprenditori) sale a livelli parossistici tanto da rendere più desiderabile lavorare che socializzare. L’affermazione del sé riversata nella capacità di essere motore di produzione. In questo quadro si rende necessario riportare al centro dell’azione politica e sociale l’Uomo. L’Uomo che deve riprendere la volontà tesa ad un processo di conoscenza che alzandone la capacità critica ne stimoli la voglia di libertà. Una società di uomini liberi è composta da individui che lo vogliono essere e per fare questo devono essere messi in condizione di non essere soggiogati da un sistema produttivo che aumenta il tempo passato al lavoro, spostamenti compresi come ci ricordava Illich, e con condizioni salariali compresse. Una nuova forma di schiavitù coperta con le parole competizione e flessibilità.
La creazione di valore che si sposta sempre di più della produzione di beni alla movimentazione di capitale ha creato sacche estese di lavoratori a basso costo che sono dispersi sia fisicamente che organizzativamente e trovano una dimensione sociale principalmente nel loro luogo di vita.
Da qui la necessità di ripartire dalla loro riaggregazione su base locale. È da lì che può nascere un nuovo cooperativismo che deve vedere al centro gli individui piuttosto che il capitale. Vanno privilegiate (anche finanziariamente) le azioni che vedono le persone aggregate verso un’azione concreta (tipo le comunità energetiche) piuttosto che le società di capitali. Si devono definire nuove tipologie aggregative che vadano oltre le società di persone e quelle di capitale. Oltre alla dimensione “privata” e “pubblica” esiste quella “comune”. Le risorse fondamentali per il “buon vivere” delle persone possono essere coniugate in senso locale e una gestione democratica e partecipativa collettiva costituisce una strada da percorrere coniugando per sovrapposizione i gestori e i fruitori del bene stesso. La “società dei beni comuni” che si sottrae ai limiti sia delle società pubbliche che di quelle private. Dal punto di vista dell’accesso al credito si deve intervenire privilegiando queste nuove forme soprattutto se una parte rilevante dell’equity è stata raccolta con strumenti di crowfunding. La raccolta di fondi sulla rete a seguito della presentazione di un progetto deve, nelle logiche di accesso al credito, costituire vaglio preliminare di controllo diffuso della fattibilità e sostenibilità.
Dal lato dello Stato, le aziende pubbliche e quelle partecipate devono indirizzarsi verso un aumento della forza lavoro giovanile ad alta qualificazione divenendo lo sbocco naturale dei tanti cervelli che produce il sistema formativo e contrastandone la fuga all’estero. Per fare questo bisogna spingere verso una riduzione dei dividendi in modo da lasciare libere risorse per investimenti produttivi strategici. Il costo del danaro ad oggi molto basso può costituire un moltiplicatore di risorse. Sul medio e lungo termine investire gli utili nell’azienda determina più valore sia per gli azionisti che per gli obbligazionisti.
In merito al campo di gioco dei giganti digitali.
Le sette sorelle del web con la loro pervasività nella vita quotidiana hanno un forte credito di credibilità nei confronti dei cittadini tali da renderle attrattive nell’erogazione di prestiti e di depositi. Per molte persone sono più affidabili dei governi visto che rendono più facile la gestione quotidiana del vivere. La crisi di autorevolezza dei governi diventa quindi una crisi di autorità.
In questo spazio si colloca l’azione dei giganti dell’high tech che possono utilizzare l’efficacia degli strumenti che hanno messo a disposizione dei cittadini, spesso gratuitamente, per acquisire autorevolezza e sfruttare gli spazi lasciati liberi dagli Stati, per mettere in campo quell’economia reputazionale che sembra essere (illusoriamente) la nuova strada di libertà per il blocco sociale maggioritario.
A questo si affianca la grande massa di denaro che i signori del web mettono a disposizione per iniziative benefiche o per la ricerca. Sembra di ritornare al XIX secolo quando il regnante e la sua corte elargivano soldi per dimostrare la loro magnanimità senza però mai intaccare sensibilmente il loro patrimonio. Una nuova “aristocrazia benevola” che sostiene il popolo e che si sostituisce allo Stato perché i governi non hanno più le risorse economiche. Reputazione e mecenatismo utilizzati come strumenti concreti di consolidamento strategico per continuare ad occupare settori sempre più ampi del mercato. Nei molteplici campi in cui gli Stati e le loro aggregazioni devono e possono agire “e fare una barriera” c’è quello della moneta.
Partendo dal lavoro che la BCE sta facendo su Eurochain, anche in Italia si potrebbe passare alla emissione di una moneta digitale “digitalizzando ad esempio la moneta metallica di cui controlla il conio in base agli accordi con la BCE” (oltretutto con un grande risparmio visto che il costo del metallo supera quello nominale per le monete piccole) oppure in fase di gestione di crediti fiscali. Una moneta che potrebbe essere scambiata in Italia tra cittadini residenti e tra aziende con sede fiscale nel nostro Paese. Un’opportunità che può vedere l’Italia come front runner all’interno dei paesi dell’eurozona. Il fallimento del tentativo dell’Estonia di fare una cryptovaluta su blockchain – l’estcoin – non deve farci desistere ma indirizzarci nella giusta direzione.
Come già detto tutto il mondo delle sette sorelle gira intorno al nuovo petrolio. I dati dei cittadini, che ieri hanno alimentato l’ascesa finanziaria degli OTT, e oggi alimentano l’ascesa dell’Intelligenza Artificiale e del Machine Learning, devono diventare un Bene Comune, ed essere stoccati in datacenter di proprietà degli Stati. Lo impongono sia la giustizia sociale che l’uguaglianza di opportunità.
Queste sfide globali tra oligarchi della rete e Stati necessitano di un sistema sovrastatale che ne riprenda il controllo e lo riporti nelle mani della collettività. Il controllo e la limitazione del potere accentrato nelle mani delle sette sorelle è un imperativo non più rimandabile. Che si tratti di imporre una tassazione base, una messa a disposizione della collettività dei dati che hanno accumulato, una limitazione delle concentrazioni monopolistiche o di accordi di cartello, gli Stati devono poter intervenire. In merito alla tassazione il G7 ha incaricato l’OCSE di fare una proposta ma come si possono escludere i paesi asiatici e la Cina in particolare, da una discussione del genere? La discussione va portata all’ONU. Ci sono due strade: a) fare un’agenzia che si occupi di predisporre un accordo internazionale che deve poi essere ratificato dai Paesi sottoscrittori (sulla falsariga di quanto fatto per le emissioni di zolfo nel trasporto navale); b) ampliare il raggio di azione del potere interdittivo del consiglio di sicurezza dell’ONU integrando il capitolo VII dello statuto ed ampliando la possibilità di intervento con azioni che non siano solo verso gli Stati ma anche verso società multinazionali. In entrambi i casi i tempi di azione non possono essere lunghi.