Mio padre quel giorno si trovò solo nel posto sbagliato al momento sbagliato. Non aveva neanche 18 anni. Stava dirigendosi dai Vergini, a Napoli, dove si trovava il palazzo di famiglia, verso piazza Dante, proprio mentre le SS stavano chiudendo e rastrellando.
Portarono via anche lui, che riuscì a infilare un biglietto nelle mani di un passante, scampato alla razzia, per avvisare i suoi genitori.
I miei nonni dovettero accontentarsi di quelle poche righe, e per due anni e mezzo non lo videro più. Per lunghi mesi non seppero neanche se fosse vivo, o morto.
Papà fu portato in un lager, un campo di lavoro, in Sassonia. A poca distanza da un campo di sterminio, di cui vedeva i fumi e l’acre odore della morte, innalzarsi verso il cielo.
Due anni e mezzo dopo, con un gruppo di sopravvissuti, riuscì a scappare. Attraversarono l’Europa a piedi e con mezzi di fortuna, mangiando ciò che la generosità delle persone dava loro, arrivarono in Italia.
Papà riuscì a riabbracciare i miei nonni, che ormai disperavano. Durante quel periodo scrisse anche un diario, raccontando ciò che provava: la violenza, la morte, ma anche la solidarietà e l’amore.
Io e mio fratello siamo sempre stati molto fieri di lui e di questa storia che ci scorre nel Dna, anche se abbiamo sempre avuto pudore a renderla pubblica.
Questa mattina in Prefettura a Napoli abbiamo ricevuto una medaglia per lui, in occasione della Giornata internazionale della Memoria. Una giornata che racconta di milioni di storie personali e familiari, dolori indicibili, ma anche solidarietà e legami affettivi che sono l’antidoto alla dannazione dei lager.
La Giornata della Memoria deve essere narrata sempre affinché non accada mai più.
Ciao papà.