articolo scritto da Vittorio Nuti per Il Sole 24 Ore
Gli italiani popolo di rentier, l’etichetta che si appiccica a chi vive di rendita, e quindi incapace di investire sul futuro, malato di immobilismo sociale che in anni di crisi genera insicurezza. L’immagine della società italiana che emerge dal 50° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese non è lusinghiera, ma conferma l’idea di un disagio crescente acuito da anni di recessione. Come sempre, l’analisi sociologica del Centro Studi Investimenti Sociali è basata su numeri e statistiche. Come quelle che registrano 114 miliardi di euro di liquidità aggiuntiva (più del Pil dell’Ungheria) accantonati dai nostri connazionali dall’inizio della crisi accantonati. Al gruzzolo messo insieme dai rentier corrisponde il passo indietro delle giovani generazioni: rispetto alla media nazionale, redditi più bassi del 15% (e del 26,5% rispetto ai loro coetanei di venticinque anni fa) e ricchezza inferiore del 41 per cento.
Nipoti più poveri dei nonni
Sono dunque i Millenial le vittime inconsapevoli di questi anni, stritolati dalla crisi e dal ridursi delle occasioni per affermarsi, uno stand by in corso da anni che ha congelato aspettative e sogni. Le famiglie dei giovani con meno di 35 anni penalizzate da un reddito medio più basso rispetto alla media della popolazione devono confrontarsi con l’incremento delle entrate degli over 65: + 24,3 per cento. Le cose non cambiano se parliamo di ricchezza complessiva: oggi quella attribuita agli under 35 è inferiore del 4,3% rispetto a quella dei loro coetanei del 1991, mentre per gli italiani nell’insieme il valore attuale è maggiore del 32,3% rispetto ad allora e per gli anziani è maggiore addirittura dell’84,7 per cento. Il divario tra i giovani e il resto degli italiani si è ampliato nel corso del tempo, perché venticinque anni fa i redditi dei giovani erano superiori alla media della popolazione del 5,9% (mentre oggi sono inferiori del 15,1%) e la ricchezza era inferiore alla media solo del 18,5% (mentre oggi lo è del 41,1%).
Rappporto investimenti/Pil tornato ai minimi dal Dopoguerra
Alla precarietà dei giovani – figli e nipoti – fa da contraltare la scarsa propensione al rischio e agli investimenti di chi detiene i cordoni della borsa: nonni e genitori. Secondo il Censis, infatti, quasi il 36% degli italiani tiene regolarmente contante in casa per le emergenze o per sentirsi più sicuro e, se potessero disporre di risorse aggiuntive, il 34,2% dei nostri connazionali le terrebbe in depositi o conti correnti. Questo spiega l’incidenza degli investimenti sul Pil, che in Italia si ferma al 16,6% (dato 2015), ai minimi dal Dopoguerra e lontano dalla media europea (19,5%), da Francia (21,5%), Germania (19,9%), Spagna (19,7%) e Regno Unito (16,9%). Insomma, i solidi ci sono, ma manca la proiezione al futuro : ci si limita a consumare il “gruzzolo”, «con il rischio di svendere pezzo a pezzo l’argenteria di famiglia».
Più occupazione ma i segnali rimangono contraddittori
Lo scenario contraddistinto da un “popolo immobile”, diviso schematicamente tra giovani sempre più poveri e anziani sempre più ricchi, ha visto negli ultimi anni qualche timido segnale di vivacità sul fronte occupazionale, con il recupero di 274mila occupati tra il 2013 e il 2015. Nel primo semestre del 2016 l’andamento dell’occupazione è ancora positivo, con una variazione pari a +1,5% rispetto allo stesso semestre del 2015. Nel periodo gennaio-agosto 2016, inoltre, il contratto a tempo indeterminato è stato utilizzato nel 21,3% dei rapporti di lavoro attivati (nel 2015 la quota era molto più alta: 32,4 per cento). I contratti a termine sono il 63,1% del totale. Segnali contraddittori ma evidenti dei cambiamenti in corso nel mercato del lavoro, dovuti soprattutto alla decontribuzione e al Jobs Act con i contratti a tutele crescenti.
Boom dei voucher e passi indietro per la produttività
Non mancano però i dati che inducono al pessimismo, come la crescita esponenziale dei voucher: 277 milioni di contratti stipulati tra il 2008 e il 2015, e 70 milioni di nuovi voucher emessi nei primi sei mesi del 2016. Una conferma che il mondo produttivo chiede flessibilità e abbattimento dei costi, allargando l’area delle professioni non qualificate e del mercato dei «lavoretti». Quello che contraddistingue i periodi di bassa crescita economica e bassa produttività: dal 2015 i nuovi occupati sono associati a una produzione di ricchezza di soli 9.100 euro pro-capite, e la produttività si è ridotta da 16.949 euro per occupato del I trimestre 2015 ai 16.812 euro del II trimestre 2016). Un dato preoccupante perché incide direttamente sul Prodotto interno lordo: nell’ultimo anno e mezzo, se la produttività fosse rimasta costante, il Pil sarebbe cresciuto complessivamente dell’1,8% e non solo dello 0,9 per cento.
In tre anni triplicate start up innovative
I segnali di speranza, in un quadro sostanzialmente negtativo, arriva dal dato sulle nuove iniziative imprenditoriali, le cosiddette “start up” innovative, triplicate in meno di tre anni. Il rapporto Censis spiega che «le startup innovative iscritte alla sezione speciale del Registro delle imprese» sono passate «dalle 1.486 del 2013 alle 6.323 della fine di settembre 2016». Nel primo semestre del 2015, si legge nel Rapporto, le imprese cessate sono state meno dell’1% del totale. Le grandi città catalizzano il 37% delle startup innovative, quasi il 50% degli incubatori e oltre il 20% dei fablab nazionali. Milano e Roma sono in testa, seguono Torino, Napoli, Bologna e Firenze. Il settore produttivo che caratterizza la maggior parte di queste imprese è la creazione di software, quasi il 20% opera nel manifatturiero. Nei 115 fablab censisti in Italia nel 2016 da Censis e Make in Italy i makers creano i prototipi funzionali necessari per poi giungere a una produzione industriale su grandi numeri. L’attrezzatura imprescindibile e presente nella quasi totalità (il 98,9%) dei fablab è la stampante 3d.