di Fiorina Capozzi, giornalista finanziario, con 25 anni di esperienza di cui dieci trascorsi a Parigi per raccontare le storie politico-economiche a cavallo fra Francia e Italia. Autrice del libro “Vincent Bolloré, il nuovo re dei media europei” – Edizioni Goware-Key4biz, giugno 2015
Il piccolo principe del cash flow, il distruttore di dinastie, il money maker. Sono tutti soprannomi che Vincent Bolloré si è guadagnato in più di trent’anni di scorribande sui mercati finanziari. L’ultima, quella attraverso Vivendi su Mediaset, lo ha reso famoso anche in Italia. Ma in realtà, negli ambienti della finanza milanese, il suo nome è già noto da tempo. Sin da quando, alla fine degli anni 90, arrivò in Italia per dare soccorso al suo mentore, il banchiere Antoine Bernheim, che rischiava di perdere la poltrona di presidente delle Generali. Da allora per oltre quindici anni è stato un socio discreto nel capitale di Mediobanca, di cui è azionista anche Silvio Berlusconi. Non senza qualche eccezione in tempi relativamente recenti. Come quando ha contribuito a scalzare dai vertici della compagnia assicurativa di Trieste lo stesso Bernheim per far posto a Cesare Geronzi. O ancora quando ha tentato di dare man forte ai francesi della compagnia Groupama per entrare nel riassetto della Premafin dei Ligresti. Bolloré è del resto un “industriale che sa contare” e sa quando è il momento di attendere e quello di agire perché è un imprenditore, ma anche un banchiere. Tanto che, in Francia, si dice che il “sistema delle pulegge bretoni”, cioè delle scatole cinesi che controllano aziende con piccoli investimenti in capitale, debba il suo nome proprio a lui.
Nato da una famiglia di industriali bretoni, Bolloré si è formato nella banca del barone Edmond de Rothschild dove ha imparato i ferri del mestiere. Strumenti che utilizza sin da subito per risollevare le sorti dell’azienda di famiglia, una cartiera, celebre per la produzione delle cartine da tabacco OCB, dove la B sta per Bolloré. Evitato il tracollo per un soffio strappando la gestione dalle mani del padre, negli anni 90 il finanziere avvia un percorso di diversificazione dell’impero di famiglia grazie ai guadagni realizzati in Borsa e con il contributo strategico di Bernheim. Sul mercato finanziario parigino Bolloré si fa conoscere e temere. Tenta l’assalto al gruppo di telecomunicazioni e cemento Bouygues, prova a conquistare la distribuzione cinematografica Pathé, mette le mani sulla compagnia marittima Delmas-Vieljeux e sulla banca Rivaud. Con il denaro guadagnato dai raid, il gruppo diventa leader nella logistica da e per l’Africa, dove gestisce anche delle immense piantagioni. Il continente nero fa la fortuna del gruppo e ancora oggi rappresenta la più importante fonte di fatturato dell’impero Bolloré. Ma è anche il suo punto critico agli occhi di gran parte della stampa francese che non manca di rinfacciargli rapporti stretti con dittatori africani e di attribuirgli un ruolo di peso anche nella Françafrique, il sistema neocolonialista francese in Africa.
Forse anche per dare una svolta all’immagine del suo gruppo, una quindicina di anni fa Bolloré decide di voltare pagina: cede buona parte delle piantagioni, puntando su batterie elettriche e media. Nel giro di un decennio i suoi progetti diventano concreti. Qualcuno dice anche per via delle amicizie politiche fra cui quella con Nicolas Sarkozy al quale, dopo le fatiche delle elezioni del 2007, Bolloré presta il suo yacht Paloma per un breve riposo. Di certo, Bolloré é uno che, come spiega la stampa francese, sta bene sia a destra che a sinistra. Perché il suo obiettivo è sostanzialmente industriale, non politico. Ed è la sopravvivenza dell’impero di famiglia che nel 2022 compirà 200 anni. Sopravvivenza che, nella sua visione, può essere garantita solo dalla continua evoluzione del gruppo e da nuovi progetti capaci di rinnovarne l’esistenza. E’ in questa ottica che Bolloré decide di investire nelle batterie elettriche e di diffonderne i vantaggi lanciando assieme al comune di Parigi il servizio di car sharing, Autolib. Contemporaneamente il finanziere sviluppa anche il primo polo di free press francese di Direct Matin e lancia (2005) due tv, Direct 8 e Direct Star. Queste due televisioni saranno il cavallo di Troia che consentirà al finanziere bretone di diventare, attraverso uno scambio, socio di Vivendi con poco più dell’1% del capitale. L’operazione è solo l’inizio di una scalata che lo porterà a diventare dominus indiscusso della società con una quota consistente ma non di controllo e secondo un copione già visto in aziende come la controllata pubblicitaria Havas. Ma l’obiettivo è più grande del controllo di Vivendi: l’azienda è il perno attorno al quale costruire un nuovo polo dei media latino. Non senza il supporto silente del governo francese. Il target predefinito è Mediaset perché non solo è forte in Italia dove controlla anche le torri Ei Towers, ma anche in Spagna dove possiede la tv Telecinco.
Inoltre Cologno Monzese ha bisogno di diventare più internazionale e di avere un partner forte con cui condividere gli investimenti necessari per competere con Sky e con i nuovi rivali globali venuti dal web come Netflix. L’occasione per imbastire il progetto arriva a luglio 2014 e viene dalla volontà dei soci spagnoli di Telefonica di uscire dal capitale di Telecom Italia che più volte in passato Silvio Berlusconi ha tentato di far convolare a nozze con Mediaset. Grazie ad un’operazione in Brasile, Vivendi si ritrova socia di Telecom Italia. Da allora, l’azienda si rafforza progressivamente in Italia grazie anche alla longa manus di Tarak Ben Ammar, un uomo che per trent’anni ha seguito gli affari di famiglia di Silvio Berlusconi. Lo stesso, che siede nel consiglio di Vivendi e di Mediobanca. Intanto, a latere, iniziano le trattative con Mediaset per uno scambio azionario che porti anche al passaggio di mano della pay-tv Premium. Ad un certo punto, l’idillio si rompe: Vivendi ripudia l’intesa raggiunta con Mediaset dando inizio ad una serie di contrasti giudiziari e poi compra il 20% di Mediaset.
A Parigi, la storia ricorda quando il finanziere bretone tentò di conquistare il gruppo Bouygues. Prima ne acquistò una piccola quota a prezzi stracciati, poi ne divenne socio ingombrante e firmò un accordo con la famiglia Bouygues. Infine ne contestò l’operato con tanto di strascichi in tribunale. All’epoca l’élite finanziaria francese diede manforte ai Bouygues che riuscirono a mantenere il controllo dell’azienda. E Bolloré si concentrò su altre prede grazie ai guadagni della sua scorribanda borsistica su Bouygues. L’intera vicenda insegnò ai miliardari francesi che il mercato è utile a reperire capitali, ma nasconde insidie. Non a caso Vincent Bolloré detiene saldamente le redini del suo impero: la cassaforte di famiglia, la Financière de l’Odet è proprietaria di oltre il 64% del gruppo Bolloré quotato alla Borsa di Parigi. Zero spazio, insomma, per scalatori dell’ultim’ora. Chi vuole fare affari con Bolloré può solo mettersi davanti ad un tavolo per discutere. Sapendo che il rischio di essere fagocitati è molto elevato.