di Ugo Grassi, candidato MoVimento 5 Stelle al Senato
È noto che il M5S ha chiesto ad i suoi candidati di sottoscrivere una clausola anti “floor crossing” (in italiano: clausola anti defezione). Il tema è più complesso di quanto credono quei commentatori a digiuno di storia delle Costituzioni e prima di prendere per i fondelli il Movimento sarebbe bene studiare un po’ (studiare fa sempre bene; se i nostri avversari lo facessero, sarebbero un po’ più competenti ed il dialogo democratico ne trarrebbe giovamento).
Com’è noto l’art. 67 cost. dispone che “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.” Il mio Maestro, autore dei libri sui quali mi sono formato, fu tra i primi, se non il primo, a sostenere la diretta applicazione della Costituzione ai rapporti privatistici. La clausola penale prevista dal Movimento, in caso di cambio di gruppo parlamentare, è un accordo privatistico. Sì che proprio la dottrina sulla quale mi sono formato potrebbe fornire la strumentazione teorica per far concludere ad un lettore superficiale che la clausola prevista dal M5S è nulla per diretta violazione dell’art. 67 cost. Per coloro che amano i tecnicismi: si dovrebbe dire che la clausola è nulla in forza del combinato disposto tra l’art. 1418 c.c. e l’art. 67 della Costituzione. La conclusione sarebbe tuttavia affrettata e la questione, molto più complessa, banalizzata.
Sempre il mio Maestro ci ammoniva nel senso della necessaria lettura sistematica delle norme: nessuna disposizione è una monade, ognuna fa parte di un sistema e soltanto guardando al sistema nel suo complesso può comprendersi il vero significato della norma. È in questa prospettiva che va analizzata la questione della validità del mandato imperativo. Quest’ultimo è definito quale limite alla rappresentatività dell’eletto, il quale, nell’assemblea legislativa, ha il potere di assumere decisioni solo nell’interesse del gruppo di cittadini che lo ha votato. Tale limite va tuttavia coordinato con la nozione di partito politico, sì che il mandato imperativo può avere diverse gradazioni di rigidità: può imporre al singolo eletto di votare in ubbidienza della volontà del partito il quale a sua volta è limitato a rappresentare solo la classe sociale che lo ha eletto; oppure il mandato imperativo può lasciare libertà di scelta al singolo con esclusione, però, del potere di disattendere, del tutto, le macro scelte politiche alla base della sua elezione sino a poter passare al gruppo avversario.
Il mandato imperativo, agli albori della nascita delle moderne democrazie, apparve subito come incompatibile con il funzionamento della democrazia stessa: se l’eletto è vincolato agli interessi del gruppo sociale che lo ha eletto egli non può esercitare quella mediazione tra opposti interessi che è il vero fulcro della democrazia e che permette alle assemblee legislative di giungere alla migliore soluzione possibile nell’interesse della nazione tutta. L’intralcio di un simile limite apparve evidente quando, durante la rivoluzione francese, il Terzo stato degli Stati Generali (esso rappresentava solo il ceto popolare, con esclusione del clero e dell’aristocrazia) si autoproclamò “Assemblea Nazionale” cioè Camera legislativa di tutta la nazione francese. Nessuno degli eletti poteva considerarsi portatore degli interessi del solo terzo stato e dunque nessuno degli eletti poteva considerare il suo mandato limitato nelle decisioni da assumere.
Com’è stato esattamente osservato, il principio del divieto di mandato imperativo ha un valore in funzione del confronto democratico tra le varie forze politiche organizzate in partiti. Da qui la dottrina costituzionalistica ha osservato che il principio di cui al nostro art. 67 cost. non è altro che una descrizione simbolica del rapporto tra l’eletto ed il partito. In altri termini: il divieto di mandato imperativo deve coniugarsi con una leale tutela delle posizioni politiche del proprio gruppo di riferimento (da intendersi sia quale partito sia quale porzione della società). E qui arriviamo al nodo: il divieto di mandato imperativo reca con sé il principio di lealtà verso le idee politiche difese in campagna elettorale ed in forza delle quali si è stati votati. Il civilista, qual io sono, non ha difficoltà a ricordare che qualunque contratto deve essere eseguito secondo correttezza e buona fede. Dunque il principio di cui all’art. 67 cost. ha un suo interno limite: quello della lealtà verso l’elettore.
Per comprendere se i limiti interni alla libertà di mandato siano essenziali al funzionamento di quella stessa democrazia che della libertà di mandato si nutre, torna assai utile leggere qualche passo della sentenza con cui la Corte Costituzionale sudafricana affrontò il tema. All’epoca l’African National Congress era il partito di assoluta maggioranza e con pratiche di floor-crossing poteva impedire agli altri partiti di dar vita ad un vero dibattito democratico. In pratica le clausole antidefezione previste dalla legislazione erano ritenute valide in un momento di emergenza democratica giacché servivano a rendere palese quell’implicito principio di lealtà che ho sopra menzionato.
“Le parti hanno sostenuto che nelle condizioni prevalenti in Sudafrica la clausola anti defezione fosse una previsione essenziale per promuovere la democrazia. Questo avviene perché noi siamo una democrazia nuova e fragile nella quale il partito di governo controlla quasi i due terzi dei seggi dell’assemblea e ciò comporta che il partito di maggioranza abbia capacità di attrarre i membri di altri partiti offrendo loro incentivi. Si sostiene quindi che se vieni ammessa la defezione è molto probabile che venga indebolita la posizione dei piccoli partiti e dunque la democrazia stessa.” (Constitutional Court of South Africa, case CCT 23/02, october 4, 2002)
Può apparire sorprendente ma la situazione attuale italiana è forse anche più grave di quanto si possa immaginare. Com’è noto, l’attuale legge elettorale contiene le stesse ragioni di illegittimità costituzionale della legge precedente. La dottrina costituzionalistica da sempre sostiene che la reiterazione di leggi già dichiarate incostituzionali costituisce un atto di rottura del patto costituzionale; cioè si tratta di eventi eversivi. La realtà drammatica, dunque, è che in questo momento tutte le forze partitiche tradizionali hanno dato vita ad un tradimento costituzionale che ha condotto il paese in uno condizione di sospensione della democrazia. Detto in modo brutale: in Italia si è instaurata una forma di dittatura silenziosa. Questo blocco unitario di potere (non richiede dimostrazione il fatto che le forze politiche di destra e di sinistra costituiscono in realtà un partito unico al potere) ha quella forza attrattiva e corruttiva attribuita dalla Corte Costituzionale sudafricana all’ANC.
In un simile frangente, dunque, esplicitare il contenuto di lealtà e correttezza connaturato alla libertà di mandato di cui all’art. 67 cost. non è una violazione dell’articolo stesso, bensì una riconferma di esso, anche e soprattutto in ragione del valore fondante dell’art. 1 che ci ricorda che la sovranità appartiene al popolo.
Non sarei allora così sicuro che la clausola anti defezione prevista dal nostro regolamento possa un giorno essere considerata nulla. Non posso prevedere quale sarebbe l’esito finale di un procedimento (di certo lungo) chiamato a giudicare la validità della nostra clausola interna. Per ora quel che è certo è che i nostri avversari studiano poco