di Manlio Di Stefano
Si parla spesso degli sprechi e dell’utilizzo distorto dei fondi che vanno alla cooperazione allo sviluppo ed in particolare alla gestione dei migranti, ma non tutti sanno davvero quale sia l’entità e la natura del problema.
Vi do qualche dato giusto per inquadrarlo.
Ancora oggi qualsiasi donazione internazionale è oggetto di trattenuta bancaria, la cosiddetta “fee”, che a conti fatti, tra i vari intermediari finanziari in gioco, vale circa il 30% dell’intero valore.
Se prendiamo come riferimento lo stanziamento dell’Unione Europea in cooperazione allo sviluppo, che ammonta a circa 60 miliardi di euro l’anno tra fondi diretti e indiretti, scopriamo che questa perdita è di almeno 15 miliardi di euro l’anno.
A questo si aggiungono vari sprechi ad ogni livello, per fare solo un esempio, l’obsoleta gestione del riconoscimento dei migranti tramite documento cartaceo e, in sua assenza, di intervista con mediatore culturale e contatti col Paese di provenienza per incrociare i dati, costa cifre esorbitanti e spesso non porta a niente dato che non può esserci collaborazione, ad esempio, con i Paesi che violano i diritti umani e perseguitano i loro cittadini.
E che dire delle cartelle mediche? Per ogni migrante che entra nel nostro territorio dobbiamo rifarle da zero verificando tutto a partire dalle vaccinazioni di base.
Non bastasse, ci sono ampissime testimonianze che il pocket money, quella piccola quota giornaliera (intorno ai 3) che i Paesi europei riconoscono ad ogni richiedente asilo, sia spesso soggetto al ricatto dei gestori dei centri d’accoglienza o a estorsione da parte dei “boss” del centro.
Il tutto, ed è solo una parte, è quantificabile in miliardi di euro ogni anno, persi per via dell’incapacità della politica di mettersi al passo coi tempi.
La buona notizia è che qualcuno ha trasformato la lamentela in azione trovando soluzioni concrete grazie all’utilizzo delle ultime tecnologie ed in particolare della blockchain.
Voglio parlarvi quindi di uno dei tanti progetti in quest’ambito, uno che ho visto coi miei occhi (lo racconto nel video), si chiama EyePay e viene usato nel supermercato del campo profughi di Zaatari in Giordania, a 30km dalla Siria.
All’apparenza è un supermercato normalissimo, frutta, verdura e tanto altro, l’innovazione però sta nel sistema di pagamento e identificazione.
La Giordania, infatti, riconosce a ogni rifugiato 20 dinari al mese (circa 23) di pocket money e vuole essere certa che questa cifra non sia oggetto di estorsioni e finisca realmente nelle mani dei beneficiari. In più, vuole risparmiare sulle trattenute finanziarie che, per 80.000 destinatari con una cifra totale di circa 22 milioni di euro all’anno, ammontano a milioni di euro.
La soluzione ideata è questa: ogni rifugiato, all’atto della registrazione d’accesso al campo profughi, viene dotato di un’identità digitale munita di impronta, scansione dell’iride e portafogli virtuale. Ad ogni rifugiato, in sostanza, corrisponde un’identità certa e una quantità di denaro. Il tutto viene registrato su blockchain (banalizzando, un database distribuito) in modo da essere sicuro, tracciabile e trasparente.
Al momento di pagare il rifugiato non avrà quindi bisogno di usare le banconote, gli basterà guardare lo scanner per vedersi scalare dal suo portafogli digitale la quota necessaria a saldare il conto. Di contro, il governo non dovrà affidare la gestione dei versamenti agli istituti finanziari ma verserà direttamente ai beneficiari sul loro portafogli digitale. Un meccanismo efficiente ed economico dato che i costi di sviluppo si pagano da sé col risparmio sulle transazioni finanziarie.
Un esperimento che funziona, crea enormi risparmi e apre a illimitate possibilità.
Ve ne dico alcune.
Se puntassimo in modo deciso verso queste tecnologie, già oggi sarebbe possibile trasferire denaro dai fondi pubblici per la cooperazione allo sviluppo direttamente ai beneficiari, scavalcando gli intermediari finanziari e in piena trasparenza e sicurezza, con un risparmio stimato in oltre il 20% rispetto all’attuale sistema.
Già oggi sarebbe possibile registrare l’identità digitale dei migranti grazie al riconoscimento della retina e avere così un’istantanea “carta d’identità” ovunque il migrante si sposti nel mondo, semplificando enormemente la vita alle forze dell’ordine. La stessa cosa può essere fatta con la cartella medica. Con uno sguardo al futuro, se questa tecnologia divenisse lo standard globale, saremmo in grado di superare il concetto stesso di passaporto e garantire il riconoscimento di ogni cittadino del pianeta nei suoi spostamenti in pochi secondi e senza timore di falsificazioni o errori umani.
Ovviamente non ci deve sfuggire che tutto ciò che ho descritto è ancora in fase sperimentale, parliamo di tecnologie nuove e su scala ancora troppo piccola per avere un feedback concreto, ma quest’occasione non si può perdere e l’Italia ha tutte le competenze per divenire leader nello sviluppo di applicazioni in grado di usare la blockchain appieno.
Si dovrà regolamentare l’accesso alle informazioni, si dovranno rielaborare gli accordi di cooperazione frontaliera, si dovrà, soprattutto, creare un tessuto sociale, istituzionale ed imprenditoriale in grado di permettere l’utilizzo nel quotidiano di tutto questo.
Tutto ciò l’abbiamo già fatto innumerevoli volte per adattarci ad ogni rivoluzione industriale. La strada è tracciata, sta a noi percorrerla tra i primi.