L’accesso all’acqua pubblica è uno dei temi più antichi della progettazione architettonica, così come lo è l’abitare, ovvero la costruzione di un riparo, dalla semplice capanna a insediamenti urbani sconfinati.
L’architettura dell’acqua attraversa la storia dell’uomo che, nel tentativo di difendersi da essa ma anche approvvigionarsi di una risorsa fondamentale per la vita del singolo e della comunità, ha sperimentato e inventato forme, tecnologie e materiali in acquedotti, dighe, fontane, terme, ponti.
L’acqua nel nostro immaginario di italiani ed europei è elemento diffuso nel paesaggio naturale e in quello urbano. Ma l’acqua nel prossimo futuro sarà una risorsa a rischio. Nelle “periferie del mondo” lo è già.
La crisi dell’acqua è un fenomeno ampio quanto silenzioso, eppure ogni anno coinvolge circa 3,4 milioni di persone che muoiono per malattie associate a insufficienza idrica. Le prime vittime di questa situazione sono donne e bambini.
Nei paesi in via di sviluppo la mancanza di acqua potabile e la necessità di un difficile approvvigionamento non comportano solo inadeguati livelli di liquidi nel corpo umano, ma anche condizioni igienico-sanitarie precarie e una bassa produttività dei terreni agricoli che a cascata significa scarsità alimentare e malnutrizione. A questi effetti si aggiungono malformazioni fisiche nelle donne, anche in giovane età, che trasportano contenitori pieni d’acqua per lunghi tragitti e l’abbandono scolastico dei bambini che in questo duro lavoro le affiancano. Le fonti dove l’acqua viene prelevata in molti casi sono contaminate per la compresenza di animali e uomini e il proliferare di parassiti.
Per contrastare l’emergenza idrica, e più in generale le precarie condizioni di sopravvivenza nelle zone ad alta criticità economica e ambientale, sono tanti gli organismi e le istituzioni che negli anni hanno riconosciuto nell’architettura un potente strumento di cambiamento e vi hanno investito. Così come numerosi sono i professionisti che in ogni parte del mondo hanno dedicato il proprio lavoro all’impegno sociale.
Basti citare UN-Habitat (www.unhabitat.org), il programma delle Nazioni Uniti dedicato allo sviluppo sostenibile degli insediamenti urbani; Architecture for Humanity fondata nel 1999 durante la guerra in Kosovo, a cui si deve l’Open Architecture Network, un sito web su cui si sono incontrati architetti, ingegneri, organizzazioni non profit e rappresentanti politici per collaborare a progetti e condividere esperienze nel campo dell’assistenza umanitaria; l’Aga Khan Development Network (www.akdn.org), una rete di agenzie che si impegna nel contrasto alla povertà prevalentemente nelle zone dell’Africa subsahariana, nell’Asia centrale e meridionale e in Medio Oriente. L’Aga Khan Award for Architecture è ancora oggi il premio più prestigioso per i progettisti impegnati nell’architettura a fini sociali. Infine Architecture Sans Frontieres International (ASF) (www.asfint.org).
La rete di architetti che ormai da decenni si dedicata all’impegno sociale nei paesi in via di sviluppo, così come nelle periferie povere ed emarginate dell’Occidente, è un’ampia comunità le cui pratiche dichiarano un approccio di fondo condiviso: la rinuncia a un’ideologia di riferimento in favore di un pragmatismo che affronti i problemi reali nelle diverse situazioni locali; l’attenzione alle comunità coinvolte in processi di progettazione e realizzazione partecipati; l’uso di materiali locali e tecniche costruttive low-tech e low-cost attuabili anche da manodopera non specializzata, come gli abitanti dei villaggi rurali adeguatamente formati; l’attenzione ai processi educativi; l’autosufficienza energetica degli edifici; l’identità formale degli oggetti costruiti, legata ai contesti in cui si collocano e ai loro abitanti, che significa rispetto per la diversità culturale; infine la qualità di ciò che si costruisce, che di per sé è manifesto del diritto di tutti, anche degli “ultimi”, alla bellezza e all’armonia.
Come Movimento 5 Stelle crediamo nell’architettura come processo attivo di cambiamento sociale, basato su interventi di piccola scala pensati per contesti specifici, rispettosi del luogo e di chi lo abita. L’architettura è l’arte sociale per eccellenza e nella sua capacità di influenzare l’ambiente in cui le persone vivono, e quindi il modo di percepire loro stesse, riconosciamo una profonda responsabilità politica.
È politica la scelta degli architetti e dei loro committenti di mettere nelle mani delle comunità il loro destino, partendo dalla trasformazione del loro territorio.
Le persone hanno il diritto di partecipare ai processi decisionali che portano a interventi irreversibili nel paesaggio e nelle città e hanno il diritto di incidere sul progetto, e dunque sul risultato finale, di questi processi.
Questo è valido per tutti gli abitanti della Terra, a qualunque latitudine.
Tra i molti progetti di qualità realizzati in giro per il mondo ne segnalo due, realizzati in Africa da due studi di architettura italiani, che a mio modo di vedere sono paradigmatici.
Il primo è H2OS dello studio TAMassociati (www.h2os-project.org). Si tratta di prototipo abitativo ecosostenibile e autosufficiente dal punto di vista energetico che può raccogliere e conservare acqua per tutti gli usi domestici: bere, cucinare, lavare e irrigare, permettendo alla comunità del villaggio di coltivare un orto e autosostenersi dal punto di vista alimentare.
Il progetto è stato inaugurato nel 2015 in Senegal, nel villaggio di Keur Bakar Diahité, 200 km a sud di Dakar, in una zona soggetta a un’inesorabile processo di desertificazione e nasce dalla collaborazione tra i progettisti e un gruppo di immigrati senegalesi in Italia. La progettazione partecipata ha permesso ai destinatari del progetto di esprimersi in anticipo su esigenze e desideri. La costruzione dell’edificio, realizzata con materiali locali e tecniche idonee al contesto rurale Sahariano, è stata l’occasione per formare gli abitanti del villaggio aprendo una scuola direttamente in cantiere.
Questo aspetto è particolarmente importante: investire sull’educazione delle comunità residenti permettendo loro di acquisire un know how spendibile in nuove esperienze di costruzione significa renderle autonome e libere. Concretamente viene attuato il famoso proverbio cinese “Dai un pesce a un uomo e lo nutrirai per un giorno. Insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita”.
Quello che può sembrare una goccia nel mare della disperazione, una casa, un prototipo, 150 metri quadri in mezzo al deserto, è invece un seme, piantato con cura, in grado di produrre frutti.
Ogni abitante che avrà imparato come costruire una casa che può dissetare e sfamare decine di persone, potrà formarne altre che potranno a loro volta costruire nuove case, villaggi, intere città. Persone più istruite, con nuove prospettive di vita, che potranno scegliere di restare e investire nei luoghi in cui sono nate invece di scappare per tentare di sopravvivere altrove, alimentando il fenomeno drammatico dell’emigrazione.
Il progetto H2OS di TAMassociati è open source, tutti materiali sono scaricabili gratuitamente dal sito dello studio. Il prototipo può essere replicato infinite volte e perfezionato in nuovi contesti. La scelta è la condivisione contro qualunque gelosia professionale e autoriale coerentemente con il motto di TAMassociati: Taking Care (prendersi cura).
Prendersi cura dei luoghi e delle persone che li abitano significa mettere le persone al centro del progetto, farne i destinatari ma anche i protagonisti, ascoltarne le esigenze pratiche e quelle identitarie, farle sentire parte attiva del processo.
Il secondo progetto che merita di essere conosciuto è Warka Tower (www.warkawater.org) dello studio viterbese Architecture and Vision, che si è poi sviluppato in un network internazionale di esperienze ispirate alla filosofia e al funzionamento della torre dell’acqua, inizialmente pensata per le aeree rurali dell’Etiopia. Questo enorme oggetto di design grazie alla sua struttura e ai suoi materiali cattura gocce di pioggia, nebbia e rugiada nell’atmosfera raccogliendo fino a 100 litri d’acqua al giorno. La costruzione è semplice, si ispira alla tradizione manifatturiera etiope e può essere realizzata in soli quattro giorni da sei persone senza energia elettrica né strumenti sofisticati, al costo contenuto di circa 1000 dollari. Il nome Warka fa riferimento agli alberi di fico un tempo diffusi nella regione, sotto i cui rami la comunità si riuniva in assemblea. La torre dunque dal nome, alla forma, ai materiali parla di identità locale e si propone come nuovo punto di ritrovo per gli abitanti del villaggio, dove trovare ombra, acqua e cibo (nell’orto coltivato intorno alla torre e da essa irrigato).
Per concludere possiamo affermare con le parole dei TAMassociati che: «Forse una buona architettura è quella in grado di restituire più risorse di quelle necessarie per la sua costruzione: in termini di cultura, conoscenza tecnico-scientifica, coesione sociale, relazione di appartenenza, valore economico».
Per approfondire il tema: https://buildabroad.org; Small Scale, Big Change. New Architectures of Social Engagement, catalogo della mostra, MoMA, New York 2011; Reporting from the Front, catalogo della XIV Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, Venezia 2016).