Riciclare l’architettura è una pratica antica e incessante, basti osservare le nostre città storiche, cresciute su loro stesse nel corso dei secoli cannibalizzando o inglobando l’esistente.
Gli insediamenti medievali in Italia, e non solo, sorgono sui resti di quelli romani, di cui hanno recuperato materiali e strutture, modificando spazialità e destinazioni d’uso degli edifici a scopo abitativo, difensivo o rituale. I tracciati viari romani sono ancora leggibili negli impianti urbani contemporanei.
Se osserviamo Roma, rintracceremo i marmi degli antichi monumenti di epoca imperiale nei palazzi nobiliari del XVI e XVII secolo, o circhi e anfiteatri nei perimetri di piazze e isolati, come piazza Navona, ex stadio di Domiziano, o piazza dei Satiri i cui edifici ricalcano la cavea interna del teatro di Pompeo. Quante le chiese sorte su antichi templi pagani, a sostituirne non solo l’uso ma anche e soprattutto la presenza simbolica?
La città è un organismo vivo che cresce e si rinnova, si espande e si contrae, come il ritmo del battito cardiaco, seguendo le oscillazioni demografiche della sua popolazione.
Molte città contemporanee in Italia dopo la seconda guerra mondiale, a causa dell’inurbamento della popolazione rurale, hanno conosciuto uno sviluppo incontrollato che ne ha esteso la superficie costruita per kilometri e kilometri, alterando il tradizionale rapporto con il paesaggio, da un lato, e con il centro storico, dall’altro.
La seconda rivoluzione industriale e il boom economico dagli anni Cinquanta in poi hanno esploso equilibri antichi ed esigenze consolidate, ponendo sfide e problemi nuovi a urbanisti e architetti.
Prima ancora, la ricostruzione postbellica aveva drammaticamente sollevato la questione di come gestire macerie e rovine. Cosa restaurare? Cosa demolire e ricostruire? Come riprogettare le grandi città per renderle organismi moderni ed efficienti senza troncare il loro rapporto identitario con la storia?
L’aspetto incoerente e disconnesso di molte delle nostre città denuncia che la sfida non è stata vinta. Al centro storico, spazio della qualità architettonica, sempre più mummificato dalla sua vocazione turistica, svuotato dei suoi abitanti e delle tradizionali funzioni civiche, si contrappone la periferia, spazio della quantità senza qualità, destinato di volta in volta a funzioni specifiche: dormitorio, produzione, commercio ecc. Una città sempre più ampia e sempre meno interconnessa, divisa in zone compartimentate e raggiungibili solo attraverso lunghe e trafficate arterie stradali o ferroviarie. Edifici residenziali, impianti produttivi e infrastrutture hanno cinto i centri storici crescendo a dismisura sull’onda di un progresso che sembrava inarrestabile.
La crisi economica, la bolla edilizia, il crollo demografico si sono abbattuti su questo processo come una ghigliottina. L’espansione delle città si è arrestata traumaticamente lasciando intorno a sè opere incompiute, inutilizzate o sovradimensionate rispetto alle reali necessità. A queste cause si aggiungono le trasformazioni tecnologiche e le delocalizzazioni industriali che rendono desueti impianti produttivi e infrastrutture e svuotano edifici e interi quartieri che li servivano. La conseguenza è che le città contemporanee sono punteggiate da moderni ruderi urbani, spesso enormi presenze fisiche che connotano il paesaggio, localizzate in zone strategiche della città, ingombranti e inamovibili.
Ecco che la tanto antica quanto nota strategia del riciclo urbano si riaffaccia nella pratica architettonica contemporanea come metodo progettuale consapevole. Un’agopuntura nel tessuto costruito che individua nelle preesistenze punti di snodo da riprogettare e riqualificare per riconnettere lacerti di città o riattivare zone abbandonate riportandovi persone e attività.
Si tratta di operazioni di riuso e trasformazione di infrastrutture dismesse, discariche bonificate, impianti industriali riconvertiti, piccoli ruderi abbandonati.
Appartiene al primo gruppo, il caso noto e paradigmatico della High Line di New York: una linea ferroviaria sopraelevata abbandonata, situata nel West Side di Manhattan. Salvata dalla demolizione per intervento dei cittadini residenti, dal 2009 la High Line ospita un parco urbano lungo 1,5 miglia. Uno spazio pubblico, nel cuore della capitale della finanza globale, sottratto al flusso frenetico e inarrestabile della speculazione edilizia e riconsegnato ai cittadini che se ne prendono cura direttamente attraverso un comitato. Il parco ospita ambienti vegetali diversi, orti urbani ma anche installazioni artistiche ed è una sorta di oasi galleggiante sopra al caos della città.
Rimanendo in tema di infrastrutture è significativo il riuso fatto del Kranspoor nel porto di Amsterdam: un imponente carroponte nell’area dell’ex cantiere navale NDSM, abbandonato alla metà degli anni Settanta in seguito al ridimensionamento dell’industria navale olandese e poi utilizzato come piattaforma di carico e scarico. Sventata la demolizione nel 1997, la struttura, liberata dalle gru, un enorme parallelepipedo in cemento armato lungo 270 metri e alto 13,5, è stata riutilizzata in modo rispettoso come basamento per un edificio in acciaio e vetro a tre piani destinato a uffici. La riqualificazione di questa infrastruttura industriale è stato il punto di partenza per recuperare tutto il quartiere circostante a soli 20 minuti dal centro di Amsterdam.
Molto interessanti sono anche gli interventi realizzati sulle discariche, come per esempio il recupero paesaggistico della discarica di Vall d’En Joan in Spagna. Questa ampia area nella riserva naturale di Garraf dal 1974 fino alla chiusura è stata usata per stoccare i rifiuti solidi della vicina Barcellona. Con la conversione in paesaggio agricolo dal 2002, i rifiuti sono stati sigillati e ricoperti di terra e la topografia del luogo è stata organizzata in terrazzamenti. Su ognuno di questi un sistema di drenaggio convoglia l’acqua piovana in cisterne che assicurano la riserva idrica. La conversione del biogas in energia elettrica alimenta il sistema di irrigazione. La vecchia discarica riarticolata in terrazze coltivate, zone alberate e campi agricoli è tornata così ad essere uno spazio pubblico, integrato al parco circostante.
Per restare più vicino a noi, potremmo citare la trasformazione in museo della centrale Montemartini a Roma, ex centrale elettrica allestita in maniera esemplare come sede dei Musei Capitolini; oppure il recupero dell’ex fabbrica Peroni che oggi ospita il MACRO, il Museo di arte contemporanea di Roma .
Gli esempi potrebbero continuare, sono tanti, diffusi in tutti i paesi e hanno caratteristiche, livelli qualitativi e scale di intervento molto diversi. Ciò che raccontano è che esiste una sensibilità nella cultura architettonica contemporanea che si basa sullo stop al consumo di suolo, sull’attenzione all’esistente e al suo riuso rispettoso e sostenibile, sia dal punto di vista ambientale che economico e sociale.
Abbiamo bisogno di riprogettare le città e il paesaggio partendo dalle lacerazioni, dai buchi, dalle ferite urbane che spesso sono anche sociali perchè denunciano l’esistenza di ghetti e realtà segregate.
Riciclare il patrimonio edilizio è una grande opportunità per curare le nostre città e chi vi abita.