Di seguito l’intervista che ho rilasciato a La Verità
Ministro, ha mai pensato in questi giorni che lo scandalo del Csm senza di lei non sarebbe scoppiato?
Se lei vuol dire che l’inchiesta è emersa grazie all’uso del trojan, non posso che confermare. Però non posso entrare nel merito di ciò che è stato rivelato.
Perché?
Per obblighi legati al mio ufficio. Non posso pronunciarmi sul merito del dibattito: “È stato legittimo o meno usare il trojan in quello specifico provvedimento?”.
Come mai?
C’è un procedimento in corso, e io sono titolare, insieme alla Procura generale di Cassazione, dell’azione disciplinare.
Può intervenire sul senso di quanto emerge dall’inchiesta. Lo ha fatto anche Sergio Mattarella!
Certo. Lo scenario che ci si è rivelato è molto grave, noi dobbiamo dare due risposte.
Quali?
La prima è la sanzione dei comportamenti individuali censurabili emersi nel corso dell’inchiesta.
E la seconda?
È ciò a cui stiamo lavorando da molto prima che emergessero gli incontri notturni tra politici e membri togati: la riforma della magistratura e del Csm. Ossia il grande intervento che abbiamo promesso agli elettori per sbloccare la macchina della giustizia in Italia.
La riforma del Csm quando e dove prenderà corpo?
L’avevo introdotta di mio pugno, come tema, nel contratto di governo. Adesso diventa legge. Posso dirle che sarà inserita nel testo dove riformeremo sia il processo civile sia il processo penale.
Provi a spiegare in cosa la riforma del Csm può essere comprensibile ai cittadini.
Io voglio fare in modo che, al contrario di adesso, la meritocrazia diventi l’unico blindato perimetro che possa determinare la carriera di un magistrato.
Questo mi pare molto chiaro. Ma come evitare le commissioni tra politica e magistratura di cui questa inchiesta ci ha mostrato tutta la pericolosità?
La mia idea è semplice: sono convinto che vada chiusa, sbarrata, qualsiasi porta girevole tra politica e magistratura.
Come?
Innalzando un muro. Ogni magistrato può legittimamente candidarsi, perché è un diritto costituzionale. Ma deve sapere che quello è un viaggio senza ritorno.
Dimissioni obbligate.
Se ti candidi deve essere chiaro che rinunci alla toga e abbandoni definitivamente la magistratura.
Senza entrare nel merito dell’inchiesta su Luca Palamara, Luca Lotti e compagnia, perché avete voluto favorire l’utilizzazione del trojan?
Questo strumento si è rivelato, e si rivelerà, sempre più prezioso. Soprattutto nelle inchieste sulla criminalità organizzata, nella lotta alle mafie.
Perché?
Questo è un Paese che ha bisogno di verità. Il trojan è uno strumento che io considero irrinunciabile, fatti salvi gli interventi che sono necessari per salvaguardare la privacy dei cittadini coinvolti in modo indiretto. Ci stiamo lavorando.
Il ministro Alfonso Bonafede spiega il suo punto di vista in un momento cruciale sia per la giustizia italiana, sia per il futuro del governo: per lui la maggioranza non deve cadere. Ricostruisce la sua storia nel MoVimento. E anche un retroscena sapido: quello che ha portato alla nomina di Giuseppe Conte a premier.
Ministro, i giornali ci danno l’idea di una crisi imminente.
Io sono reduce da un vertice di maggioranza sulla riforma della giustizia. Posso dirle che il clima è molto positivo.
Forse anche lei se fosse al posto di Matteo Salvini, dopo il voto delle europee punterebbe ad elezioni anticipate.
Un buon leader capisce il clima. Quello che avverto io è questo: il Paese ci chiede di governare.
Il MoVimento sta vendendo male i suoi risultati, ad esempio il reddito?
Se lei ha questa impressione lo considero quasi un complimento.
In che senso?
Siamo molto impegnati nelle cose da fare. Molto preoccupati di quel che stiamo portando avanti, piuttosto di ciò che è già fatto.
È una risposta dialetticamente efficace: mi convinca che sia vero.
Potrei sequestrare mezz’ora del suo tempo per decantare le virtù dello Spazzacorrotti…
E ci rinuncia?
Sì. Perché la bontà della legge emerge in ogni inchiesta di cui si legge sui giornali.
Secondo le opposizioni è un provvedimento «giustizialista».
Ripetiamo lo stesso esercizio di prima: metta insieme tutte le notizie che riguardano vecchie e nuove Tangentopoli, episodi di corruzione e malcostume. Poi chiediamo alla gente che non pensa che sia giusto fare di tutto per reprimerli.
Lei che formazione ha avuto?
Non l’ho mai detto, credo, ma ero di centrosinistra. Ho fatto in tempo anche a votarli. Poi sono rimasto deluso.
Da cosa?
Dalla distanza dai valori che volevano rappresentare e da quello che tacevano. A partire da legalità e questione morale.
Un esempio.
La delusione più grande? Sulla giustizia: il confitto di interessi. Quando il Pd è andato al governo non ha fatto la legge. Ora sulla prescrizione li vedo votare insieme a Forza Italia.
All’università ha scelto giurisprudenza.
Finisco a Firenze. quasi per caso.
In che senso?
Nel 1995 incontro una mia professoressa di filosofia del liceo, la Oliveri. La stimavo, era collega di mia madre. E lei mi dice: “Tu devi andare a Firenze!”.
Lei cosa ha fatto?
Ci sono andato!
Si laurea. Diventa assistente universitario.
Faccio un dottorato di ricerca a Pisa. Collaboro con il mio maestro, il professor Giorgio Collura a diritto privato.
E il giovanissimo Bonafede conosce un giovane professore: Giuseppe Conte.
Fin dai primi convegni mi ha colpito per la sua disponibilità, umanità. Io per lui non ero nulla, e invece era sempre curioso, attento a chiunque fosse intorno a lui.
Mi faccia un esempio.
Nulla di sorprendente: “Come va a casa? E il lavoro?”. Si preoccupava delle persone.
Lei era anche praticante avvocato, ma lui le chiese di collaborare.
Facevo esami con il mio professore e ogni tanto andavo a dargli una mano nelle sue sessioni d’esame.
Lei si ricorda di Conte quando nel 2013 dovete designare un nome nel Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa.
Esatto.
E c’è un dialogo cult! Lo ricostruisce?
Gli dico: Professore, noi la stimiamo, vorremo lei.
E Conte?
Ah ah ah… Fa una pausa. Mi guarda e mi dice: “Alfonso, ma tu lo sai che io non vi ho votato?”.
Aveva votato Pd. E lei?
Gli ho risposto una cosa di cui sono convinto: “A noi non ci interessa chi ha votato, ma come svolgerà l’incarico. Ci interessano i suoi valori e la sua libertà”.
Sembra un dialogo scritto da uno sceneggiatore americano.
È esattamente quel che è accaduto. Lui da noi non ha ricevuto mai una telefonata. Solo dopo entra in rapporto con il gruppo parlamentare, sui temi tecnici.
L’ha suggerito come premier?
«Noooooh! Lui presiede la commissione istruttoria sul giudice Francesco Bellomo. Bene. E nel 2015 conosce Luigi Di Maio.
Diventa ministro ombra del governo ombra.
Da indipendente era candidato alla Pubblica amministrazione.
E chi lo indica come premier?
Si cercava il famoso premier terzo. E il MoVimento fece il suo nome.
Cioè Di Maio. Tutti i pentastellati eletti nel 2013 erano passati per una sconfitta. La sua qual è?
«Ehhhhh! Ero l’avversario del candidato sindaco di Firenze, Matteo Renzi. Nel 2009.
E quanto ha preso?
Il 2%! Mi sembrò un trionfo. Lo era. In una Regione rossa, partendo da zero e spendendo zero.
Ma come era diventato il candidato sindaco?
Avevo fatto tutte le battaglie, a partire da quella contro l’inceneritore. Fui invitato da Michele Santoro a parlare per due minuti. Credo di essere stato efficace. Tornai a Firenze e gli attivisti mi dissero: “Ti va di rappresentarci tu?”.
Quindi Conte non sarebbe premier senza la professoressa Oliveri e lei non sarebbe ministro senza Santoro?
«Ah ah ah. Conte è premier soltanto grazie alle sue qualità, che i cittadini stanno conoscendo giorno dopo giorno. Quanto a me, mi piace pensare che me lo avrebbero chiesto lo stesso.
Lei ha avuto tanti duelli con Renzi. Ora come lo giudica?
Una persona che parlava tanto ma realizzava poco. Era in totale antitesi tra i valori che doveva rappresentare.
E Di Maio?
Luigi mi ha detto che ci eravamo conosciuti, nel 2010. Io, confesso, non me lo ricordavo. Siamo diventati amici nel 2013.
Lei è un fedelissimo «luigino». Non le piace la linea Di Battista?
Ho maggiore sintonia con Luigi. Ma non ci sono linee. E condividiamo un’amicizia forgiata nel fuoco.
In che senso?
Vada a rivedere in video dello scontro in Aula quando Laura Boldrini espulse Alessandro, io mi alzo e le dico: “Lei non è né la mamma né la professoressa di Di Battista!”.
S’è pentito di quando gridava: «Onestà!» ai colleghi del Pd?
Sono stato uno dei più duri. Mi hanno espulso almeno tre volte. Intervenivo contro perché credevo nei valori che portavamo avanti. Ho litigato con la Boldrini. E ne sono orgoglioso.
Era sicuro di diventare ministro?
No. Non ho mai chiesto un ruolo, né dato per scontato di averlo.
In un anno ha fatto abbastanza?
Il blocco degli sconti di pena, l’anticorruzione, le norme contro il voto di scambio tra politica e mafia, lo Spazzacorrotti. La class-action… E stiamo approvando anche il codice rosso per tutelare le donne. Le basta?