Ieri la collega deputata Lia Quartapelle Procopio, capogruppo PD in commissione esteri, in un’intervista su “La Stampa” sui fatti di Hong Kong mi ha definito «il capo della linea di non ingerenza». Lei la posizione dei MoVimento 5 Stelle la vede così: «Ho avuto l’impressione che per loro sia difficile ammettere o capire la posta in gioco».
Quartapelle vuole mettere davanti al governo di Pechino, a mani nude, «dei paletti invalicabili», perché ritiene che la politica estera si faccia «imponendo i propri principi». Così parlerebbe, suppongo, un capo della linea dell’ingerenza.
Ma immagino che Lia non voglia questo titolo, perché anche lei avrà notato come negli ultimi 16 anni, dall’Iraq in poi, in decine di casi, gli «esportatori di democrazia» abbiano esportato soprattutto caos, grandi conflitti, guerriglie urbane e drammatici peggioramenti dei diritti umani.
L’Occidente – o almeno la sua versione più incauta che vorrebbe insegnare a vivere agli altri popoli – è diventato una macchina freudiana della “coazione a ripetere”: in parole povere è incorreggibile e si mette sempre negli stessi guai. Magari a Hong Kong è diverso, stavolta, e perciò Quartapelle insiste perché si voti la mozione di condanna delle autorità cinesi presentata dal collega dell’opposizione Maurizio Lupi. Magari siamo in una stagione mondiale in cui presso tante piazze in contemporanea si confrontano con durezza idee diverse di Stato. L’ho già ricordato: sta avvenendo a Hong Kong come a Santiago, a Bogotà come a Barcellona, a Teheran come a Baghdad, a Beirut come a Caracas, al Cairo come a La Paz. E ce ne sono altre ancora. Tipo Gaza, dove cadono bombe sui bambini, senza che se ne parli troppo.
In Cile decine di giovani manifestanti sono stati accecati con i proiettili di gomma della polizia, in Bolivia e Colombia decine di morti, idem in Iran e in Iraq, il Libano una polveriera, i selciati francesi lasciano ogni sabato diversi “gilet jaunes” a rantolare, pronti a ingrossare le fila dell’associazione dei mutilati. Ne avete sentito parlare? Ovunque vediamo situazioni controverse, in cui si affiancano manifestazioni pacifiche, atti sediziosi, tumulti e cicli di repressione delle autorità.
Abbiamo visto pochi sopraccigli sollevarsi quando il presidente francese Emmanuel Macron annunciava una dura repressione di chi protestava con l’uso della violenza. Quando invece il presidente cinese Xi Jinping, quasi in fotocopia, invita la magistratura di Hong Kong a punire “coloro che hanno commesso violenti crimini”, secondo la mozione Lupi si tratta nientemeno che di «una specie di “licenza di uccidere”» nonché del «“preludio per un massacro” dalle parole di un giovane cinese studente». Dovremmo dunque farci buttare senza indugio da Lupi nel tritacarne delle polemiche hongkonghesi, facendoci trascinare dalle aspettative pessimistiche espresse da persone coinvolte nella controversia politica locale, prendendole come oro colato. L’ipotesi che ci siano anche ingerenze forestiere che contaminino la lotta politica in loco viene liquidata come «senza prove evidenti», anche se poi si citano gli interventi di numerosi parlamentari britannici che sollecitano gli Stati del Commonwealth a concedere la doppia cittadinanza ai sette milioni di residenti di Hong Kong (l’equivalente di una bomba atomica da scagliare sulle relazioni diplomatiche).
Ecco, la non ingerenza, in un simile quadro, è per lo meno un atto di elementare prudenza, di capacità di non farsi imporre l’agenda da nessuno, di non far strumentalizzare il Parlamento di un paese come l’Italia nell’indirizzare l’evoluzione costituzionale di un paese straniero, o addirittura nella ricerca di un “regime change”. La rappresentante del PD insiste sullo schema Lupi e chi non lo firma sarebbe solo uno che si mette dalla parte del più forte. Noi crediamo invece che dovremo sì esprimere una posizione italiana su questa vicenda, ma che non ci dovremo far torcere il braccio da nessuno né farci imporre interpretazioni preconfezionate.
Mesi fa un coro si levava affinché l’Italia riconoscesse come unico presidente del Venezuela Juan Guaidó, un politico oggi già ampiamente screditato. Sono orgoglioso di aver perorato e vinto la linea della «non interferenza»: ci saremmo ritrovati in un vicolo cieco diplomatico. Facevamo bene a invocare meccanismi di mediazione, approvati dall’ONU in ossequio all’ordinamento internazionale, con l’obiettivo di una via pacifica e democratica alla crisi. Se avessimo sostenuto le forzature istituzionali per il “regime change” avremmo rischiato di facilitare la guerra nelle case dei venezuelani. Tra muoversi purchessia e muoversi con un potente “calm down” preferiamo la seconda. Ce lo dicono tante cose: l’esperienza internazionale di questi anni, il ruolo dell’Italia, la corretta valutazione degli interessi in campo, la consapevolezza delle ingerenze che tirano la giacca alle priorità dei media, tra megafoni su Hong Kong e silenziatori sulla Bolivia e il Cile.
Sul caso di Hong Kong, la proposta è semplice. La mozione Lupi va riscritta da cima a fondo nelle premesse. Per quanto riguarda gli impegni, niente fughe in avanti sui media, non serve a nulla. Discutiamone in modo più equilibrato, come è successo altre volte, senza pistole alla tempia. Il diritto internazionale è già fonte di ispirazione formidabile per guardare a quel che sta accadendo nelle piazze di mezzo pianeta, per valutare e appoggiare i diritti di espressione, per tener conto della delicatezza della «non interferenza» dove migliora le relazioni internazionali.
Noi ci siamo, dalla parte della libertà e della pace. Dovremo lanciare una nuova stagione dei diritti umani nel mondo. In questo l’Italia ha una fantastica tradizione, penso ai convegni degli anni cinquanta in cui il sindaco di Firenze, La Pira, in piena Guerra Fredda, invitava i sindaci di città dell’Est, dell’Ovest, del Sud del mondo e anticipava i tempi della fine del colonialismo. L’angolo visuale dell’umanità, non quello della CNN.