Nel 1835 Giuseppe Mazzini definì la Nazione come un insieme di persone che “riconoscono uno stesso principio, e si avviano, sotto la scorta d’un diritto comune, al conseguimento di un medesimo fine”. Sulla base di quei principi la parola Nazione, espressa come comunità di individui che si riconoscono nei diritti e doveri costituzionali, deve riprendere il suo significato originario. È sulla base della capacità di controllo delle proprie condizioni di esistenza, sulla condivisione di un progetto comune, sulla “res-publica”, che i cittadini si sentono appartenenti ad una comunità nazionale.
In un mondo così globalizzato, così oligarchizzato, così disuguale, gli Stati devono riprendere un ruolo propulsivo. La logica del “mercato che si autoregola” si è dimostrata fallimentare in merito al contenimento delle disuguaglianze che sono aumentate piuttosto che diminuite.
Lo Stato deve tornare ad assumere un ruolo di indirizzo strategico attraverso un’inversione di tendenza rispetto al ciclo di privatizzazioni degli anni 90. Esempio ne sia il settore delle infrastrutture non replicabili, in particolare di quelle a rete, deve essere saldamente in mano pubblica. Lo Stato deve tendere in generale a ridurre la dipendenza dall’estero, non per raggiungere una condizione autarchica ma per implementare la produzione interna, aumentare il livello di sicurezza agli shock provenienti dall’estero, aumentare l’occupazione. Insomma lo Stato deve tornare ad avere un ruolo non marginale nella pianificazione, programmazione e coordinamento dell’economia. D’altronde questo è l’indirizzo del secondo e terzo comma dell’articolo 41 della costituzione.
In merito al rapporto tra Stato ed Unione Europea, il passaggio dalla calda dizione “Comunità” del trattato di Roma alla fredda parola Unione del trattato di Lisbona rende plasticamente l’idea di come, semplificando, si è passati dai diritti degli Uomini ai doveri del Mercato. L’articolo 3 del trattato istitutivo dell’UE ci ricorda che “l’Unione si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su un’economia sociale di mercato che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente” e l’articolo 9 del trattato sul funzionamento dell’UE cita “Nelle sue azioni l’Unione mira ad eliminare le disuguaglianze”. In questo ambito, le azioni messe in campo negli ultimi quindici anni, hanno privilegiato il tema “competizione” rispetto a quello della “piena occupazione e del progresso sociale” e “dell’eliminazione delle disuguaglianze”. Il prodotto è stato uno squilibrio tra le aree centrali e quelle periferiche. Uno degli esempi che riguarda l’Italia è il settore dell’automotive dove tutto l’indotto che lavorava per la Fiat (oggi trasferita fiscalmente nel paradiso fiscale Olandese) prosegue la sua attività al servizio dell’industria tedesca. Il valore aggiunto si è spostato verso un altro Stato dell’Unione.
Se l’Unione Europea vuole avere un senso in linea con le sue aspirazioni iniziali (quando si chiamava Comunità) deve avere il coraggio di accelerare rapidamente nella sua capacità di offrire condizioni di vita compatibili con la giustizia sociale dei suoi cittadini. Le politiche di austerità non hanno prodotto posti di lavoro, nè aumentato i redditi, nè incrementato i consumi. I cittadini si sono sentiti solo più instabili, insicuri e poveri. C’è bisogno di un cambio di passo. In primo luogo bisogna spostare l’attenzione dalla competizione intra UE a quelle extra UE.
I veti ed i controveti per difendere posizioni di forza nel mercato interno porta alla sconfitta di tutti. L’Europa, se vuole giocare la partita globale, deve correre. Deve correre e difendersi. Per i servizi digitali bisogna che i dati dei cittadini e delle imprese dell’Unione siano allocati in data center ed in un sistema cloud di aziende partecipate dagli Stati dell’Unione. È necessario fare in modo che le grandi trasformazioni, come il green new deal, portino vantaggio ad aziende intracomunitarie. La competizione globale non aspetta la vecchia Europa.
Non si può competere con USA e Cina se la BCE non cambia i suoi obiettivi. Le politiche di piena occupazione devono essere ricomprese nel mandato della BCE così come avviene per la FED statunitense. L’UE non raggiunge i suoi scopi originari se la competizione intra comunitaria è fatta su livelli di tassazione profondamente diversi. La libertà economica deve trovare un equilibrio con la coesione sociale.
Uno degli obiettivi da promuovere è l’eliminazione dei “paradisi fiscali intracomunitari” ed anche di quei Paesi che seppur non fanno parte dell’UE, sono geograficamente compresi in Europa. I paradisi fiscali costituiscono a livello globale un cancro che sottrae immensi capitali alla ridistribuzione a favore delle classi più disagiate. L’UE deve dare l’esempio: è necessario uniformare il livello minimo di tassazione principalmente nei confronti delle grandi aziende multinazionali. Se una società ha la sede in un paradiso fiscale ne deve essere impedito l’accesso al mercato dell’Unione. Come ricorda Stiglitz per garantire giustizia sociale il livello di tassazione per i grandi gruppi sovranazionali non può essere fissato al disotto di un determinato valore. Valore che deve essere sufficientemente alto da garantire un’equa ridistribuzione dall’alto verso il basso.
Solo così la percezione di un’«Unione dei parrucconi» diventerà la realtà di un’«Unione dei cittadini».