Dal punto di vista climatico il punto di rottura è conciso con il massiccio uso di fonti fossili iniziato dall’epoca dell’utilizzo della macchina a vapore per eliminare l’acqua dalle miniere di carbone in Inghilterra. La rivoluzione industriale, basata prima sul carbone, poi sul petrolio ed infine sul gas naturale, ha reimmesso in atmosfera una parte importante di quel carbonio che si era accumulato nel sottosuolo nel periodo carbonifero e nel giurassico. Materia organica cresciuta assorbendo la luce solare e accumulata per decine di milioni di anni e successivamente trasformata in quella fonte fossile che gli uomini utilizzano da solo 200 anni.
La depauperazione di questa “energia solare concentrata” ha prodotto un innalzamento del tenore di gas climalteranti, dall’epoca pre-industriale, del 35%. Il salto è paragonabile a quello tra un’era glaciale ed una interglaciale. In termini di CO2 emessa, fino alla fine della seconda guerra, il totale globale era contenuto in 5 miliardi di tonnellate anno. Nel 2017 siamo arrivati a valori sette volte superiori. Come Paesi emettitori fino al 1980 USA e UK erano responsabili da soli per il 50% del totale cumulato. La Cina emetteva il 7% del totale annuo, l’India l’1,6%. Nel 2017 gli USA erano responsabili del 25% del cumulato mentre la Cina del 12% e l’India del 3%. La Cina diventava il primo emettitore del mondo con 10 miliardi di tonnellate contro i 5 degli USA. In termini percentuali, sempre nel 2017, era responsabile del 27% del totale annuo e l’India del 7%. Il “socialismo con caratteristiche cinesi” lanciato da Deng Xiaoping nel 1982 aveva dispiegato i suoi effetti sull’ambiente.
La Cina ha usato le sue grandi miniere di carbone per supportare lo sviluppo industriale tanto che l’incremento di produzione interna ha coperto quello della domanda in una sorta di autarchia energetica. Gli USA, con la tecnologia del fracking, sono tornati ad essere autarchici relativamente all’accoppiamento di domanda ed offerta di gas e petrolio. In questo contesto i Paesi dell’UE dipendono per il 55% da fonti energetiche di importazione. L’Italia ha uno dei più alti gradi di dipendenza all’interno dell’UE con un valore dell’85%.
L’opzione delle fonti rinnovabili accoppiata all’efficienza energetica, ad un sistema di trasporto defossilizzato, ad un approccio decentralizzato dove il centro diventa principalmente strumento di garanzia della stabilità del sistema energetico, è un imperativo che deriva dalla scarsezza di risorse. L’Italia può e deve essere l’avanguardia di questa trasformazione industriale e comportamentale.
La vera sfida è far sì che la defossilizzazione dell’economia non produca un nuovo imperialismo/colonialismo che tenga soggiogati quei Paesi del mondo che sono ancora alla fase di inizio dello sviluppo industriale. Quei Paesi che stanno vivendo o si accingono a vivere i loro “30 gloriosi”. Le soluzioni che i Paesi ad avanzato stato di industrializzazione sviluppano devono essere trasferite senza oneri a quei Paesi ed in particolare a quelli africani. L’Africa subsahariana, secondo le previsioni, avrà un boom demografico a cui si accoppierà una maggiore domanda di energia. Bisogna evitare una “colonizzazione tecnologica”. Bisogna evitare che quei Paesi siano il luogo dove con una mano si danno soldi e con l’altra si fanno tornare indietro utilizzando il meccanismo delle commesse alle aziende nazionali. Va bene chiedere un maggior equilibrio nella bilancia dei pagamenti, soprattutto nei confronti dei fornitori di fonti fossili, ma senza che diventi strumento per “aumentare gli spazi di mercato” a scapito delle condizioni di vita del popolo locale.
Il sistema di ricerca e sviluppo oltreché l’industria (che usa le logiche del diritto industriale basato sul brevetto per assicurarsi utili incompatibili con le condizioni di vita del popolo residente in aree a ritardo di sviluppo), devono limitare l’uso della proprietà intellettuale verso quei Paesi per permettergli di utilizzare le tecnologie al fine del loro sviluppo interno. Ecco un dono che il Vecchio Continente può fare all’Africa. Ovviamente questo dono deve servire per migliorare i livelli di vita delle loro popolazioni e quindi la tecnologia potrà essere usata solo dai governi o da società pubbliche e non per incrementare il livello di competizione tra Stati africani o da quegli Stati verso i paesi “donatori”. L’Italia, i Paesi dell’UE, se ne facciano promotori verso le altre grandi potenze tecnologiche a partire da USA e Cina.