L’Italia è entrata nella stagione della pandemia come ventiquattresimo Paese in Europa per livello di digitalizzazione di cittadini, imprese e pubblica amministrazione [dato DESI Index 2019].
Dietro di noi solo Polonia, Grecia, Romania e Bulgaria.
All’inizio dell’anno, prima che il Covid si abbattesse sul nostro Paese, tre persone su dieci, in Italia, non usavano internet abitualmente e metà della popolazione mancava di competenze digitali di base.
Quasi un italiano su cinque non aveva mai usato Internet contro una media europea di un cittadino su dieci.
L’Italia era ultima in Europa in termini di smartworking con appena il 7% del personale pubblico e privato che lo utilizzava [dato Eurofound 2019] e il ricorso all’e-learning nei percorsi formativi di ogni ordine e grado era marginale.
Meno della metà della popolazione acquistava online beni e servizi e una percentuale analoga utilizzava servizi bancari [dati Desi Index UE 2019].
Lo score italiano relativo allo shopping online dei consumatori italiani, nel goingdigital toolkit dell’OCSE, per il 2019, era di 54 contro una media dei Paesi OCSE di 76.
E i dati non erano più confortanti sul versante delle piccole e medie imprese che vendevano online con un Paese ventiseiesimo nella classifica europea e trentunesimo in quella dei Paesi OCSE.
L’Italia era fanalino di coda, ventisettesima su ventotto, anche in termini di cittadini che utilizzavano le tecnologie per interagire con la Pubblica Amministrazione.
Eravamo decisamente e senza ambiguità un Paese poco digitale.
I giorni della pandemia ci stanno cambiando ed è difficile resistere alla tentazione di scrivere che ci hanno cambiato, scommettendo sul fatto che alcune delle nuove “abitudini” acquisite nei giorni del Covid sono irreversibili.
Non c’è un solo indicatore tra quelli disponibili che non confermi che l’Italia di oggi è un Paese straordinariamente più digitale di quello di ieri sebbene con tutte le disfunzioni e patologie che un’esplosione al posto di un’evoluzione produce.
Smartworking e e-learning sono diventati di uso quasi comune.
Dal 2004 ad oggi, racconta Google trends, l’espressione smartworking, in Italia, non era mai stata così tanto presente nelle ricerche online così come quella e-learning.
E i dati dei fornitori di servizi di connettività registrano tutti incrementi nell’utilizzo della Rete tanto intensi da aver, in qualche momento – nel mese di marzo in particolare – messo a dura prova la resistenza della nostra infrastruttura che, pure, alla fine ha sostanzialmente retto davanti allo stress test al quale è stata sottoposta.
Il Covid ha, inoltre, messo letteralmente le ali agli acquisiti online che da pratica eccezionale di alcuni e sconosciuta ai più è divenuta, nelle sue diverse forme e tonalità, ordinaria per i più.
Il Food & grocery online aveva alla fine del 2019, in Italia, una penetrazione dell’1,1%.
In pratica di ogni 100 euro spesi nel settore alimentare solo 1 veniva speso online. In poche settimane la domanda è schizzata, moltiplicandosi per un fattore di 10 o 20 [dati polimi].
E d’altra parte anche qui, google trends conferma che mai dal 2004 ad oggi l’argomento “consegne a domicilio” è stato così tanto cercato dagli utenti italiani.
E i segnali non sono diversi – anche se, ovviamente, i tempi di reazione sono enormemente più lenti – sul versante della trasformazione digitale del rapporto tra cittadini e amministrazioni.
Basta guardare all’impennata registrata nei primi quattro mesi del 2020 nelle richieste e nei rilasci delle identità digitali del Sistema pubblico per l’identità digitale (SPID): dal primo gennaio al 30 aprile 2020 ne sono state rilasciate oltre un milione contro una media annuale dalla nascita del sistema al dicembre del 2019 di circa un milione e trecento mila identità.
Come dire che in quattro mesi è stato distribuito un numero di identità di poco inferiore rispetto a quello che generalmente viene distribuito in un anno intero il che, se il trend rimanesse lo stesso, significherebbe che nel 2020 i cittadini che potrebbero chiedere e ottenere un’identità digitale potrebbero essere quasi tre volte quelli che lo hanno fatto sin qui.
Sin qui i fatti, i dati, le certezze del Paese di ieri e di quello di oggi.
Il punto ora è capire che Paese vogliamo essere domani o, forse, meglio, che Paese dovremmo essere se vogliamo rialzarci dalla tragedia che ci ha travolti, se vogliamo essere un Paese democratico, se vogliamo essere un Paese capace di giocare la nostra partita nella società globalizzata cogliendo i benefici che il progresso tecnologico ci offre e facendo in modo che i vantaggi siano distribuiti, nella maniera più equanime possibile, tra tutti i cittadini, nessuno escluso.
In questa prospettiva, le principali sfide che ci attendono, sembrano queste:
•La connettività. Che siano pochi o che siano tanti è relativo, quel che è certo è che ci sono ancora persone che vivono nel nostro Paese impossibilitate a disporre di risorse connettività adeguate a lavorare, studiare, informarsi, acquistare online o fare impresa.
Nei giorni del Covid abbiamo visto ragazzini costretti a spostarsi di un chilometro dalle loro case e rifugiarsi in un capo per intercettare un segnale capace di garantirgli la possibilità di seguire una lezione.
In un Paese finalmente sulla strada della digitalizzazione si tratta di una circostanza democraticamente inaccettabile.
•L’identità digitale. Sei milioni e mezzo di italiani hanno un’identità digitale di SPID. Oltre quindici milioni hanno una carta di identità elettronica [ndr si tratterà in buona parte degli stessi che hanno anche un’identità digitale (SPID)]. Abbiamo comunque oltre due terzi della popolazione che non è in grado di esibire un “documento di identità” online quando accede a un servizio pubblico o privato che, ai fini della fruizione, ne presupponga l’identificazione.
Oggi saremmo un Paese meno democratico e civile se, negli ultimi cinquant’anni, avessimo lasciato due terzi della popolazione senza una carta di identità o un passaporto e, in una società sempre più digitale come quella che ci avviamo a diventare, domani saremo un Paese meno civile e democratico se non riusciremo a dare un’identità digitale a tutti i cittadini, nessuno escluso.
•Accessibilità digitale. Nei giorni del Covid i disabili sono stati più ultimi di sempre, più isolati di tutti perché a differenza della più parte della popolazione non hanno avuto la possibilità di beneficiare di un enorme ventaglio di servizi online pubblici e privati perché siti e app non sono costruiti – pur potendo tecnicamente esserlo – per essere accessibili a chi ci vede di meno o a chi difficoltà motorie agli arti superiori. È, evidentemente, una situazione democraticamente insostenibile che va rimossa nel più breve tempo possibile.
•Educazione digitale. Una cosa e non saper parlare inglese in un Paese che parla italiano e una cosa e non saper parlare italiano in un Paese che parla italiano. Lo stesso principio vale per l’alfabetizzazione digitale e l’educazione informatica. Una cosa è esserne privi in un Paese come quello di ieri ancora poco digitale e una cosa è esserne privi in un Paese con ambizioni e speranze digitali. Nell’Italia di oggi e, ancor di più, in quella di domani, l’assenza di un adeguato livello di educazione digitale è un handicap che minaccia privare qualcuno dei propri diritti di cittadinanza e del diritto a partecipare alla vita del suo Paese.
•Mercato o colonia digitale. Che si tratti di intrattenimento, shopping online, servizi di smartworking o e-learning l’esplosione che si è registrata nei giorni del Covid ha prodotto incrementi straordinari di utenti di servizi che sono, con pochissime eccezioni, forniti da soggetti stranieri. In una società globalizzata come quella in cui viviamo, naturalmente, i confini geopolitici, sono sgretolati ma il dato non può lasciare indifferenti. I piccoli e medi esercizi commerciali di casa nostra hanno chiuso per la pandemia e, in molti si stanno chiedendo se abbia senso riaprire ora che la loro clientela si è spostata online e si sta affezionando alle grandi piattaforme dell’ecommerce globale. E, naturalmente, questo trasferimento massiccio sulle nuvole dei servizi digitali stranieri è accompagnato da un trasferimento su quelle stesse nuvole di una quantità enorme di dati che rafforza ogni giorno che passa gli oligopoli dei dati che già dominano i mercati. Dobbiamo scegliere se vogliamo che il nostro Paese sia un mercato o una colonia e nel primo caso dobbiamo investire ogni risorsa disponibile non per combattere gli oligopolisti a colpi di regole protezionistiche ma per fare in modo che la nostra impresa vada online a giocare una battaglia commerciale almeno ad armi pari perché poi siano concorrenza e libero mercato a garantire a imprenditori e consumatori il miglior assetto possibile.
•Diritto a innovare. A Singapore Spot, il cane-robot della Boston Dynamics gira nei parchi per ricordare ai cittadini l’esigenza di non stare troppo vicini, in Canada i droni consegnano medicinali agli anziani mentre negli USA iniziano a consegnare la spesa, in Giappone un robot tutto italiano consegna la posta e in Gran Bretagna – fin qui ostile ai monopattini elettrici – il Governo ha spalancato le strade alle due ruote piccole per far fronte alle nuove esigenze di mobilità. L’Italia è uno straordinario Paese di geniali innovatori ma regole e burocrazia hanno fatto si che, persino ai tempi del Covid, le risposte che si sono date ai problemi siano state tradizionali. E tradizionale – nel senso deteriore del termine – rischia di essere il futuro che ci aspetta. Dobbiamo riconoscere alle più meritevoli startup di casa nostra il diritto a innovare e deve essere un diritto effettivo fatto di accesso alle necessarie risorse economiche e a un sistema regolatorio che consenta di sperimentare la buona innovazione anche quando in astratto in contrasto con regole antiche rimaste scolpite nelle nostre tavole delle leggi. E dobbiamo organizzarci con urgenza a governare – non a frenare o ostacolare – un’applicazione tecnologica come l’intelligenza artificiale perché il nostro Paese possa divenirne un campione internazionale.
•Diritti fondamentali online. La vita delle persone, nell’Italia post-pandemia, sarà più digitale di quanto non lo sia stata sin qui. È, dunque, evidente che l’affermazione e l’effettività dei diritti fondamentali dell’uomo nella dimensione digitale oggi – e ancor di più domani – rappresenta e rappresenterà un presupposto di sviluppo democratico del Paese. Che si tratti di partecipazione alla vita politica del Paese, di libertà di parola, di libertà di impresa o associazione nella dimensione online, di diritto della protezione dei dati personali, allo stato, i diritti fondamentali online in Italia continuano a rappresentare delle cenerentole rispetto ai corrispondenti diritti nella dinamica analogica.
L’Italia che dovremmo essere negli anni del post-pandemia ha per presupposto necessario – ancorché forse non sufficiente – la soluzione di queste questioni perché solo affrontandole e risolvendole potremo fare del periodo drammatico che stiamo vivendo un punto di rottura nella storia del Paese capace di segnare per davvero un prima e un dopo e garantire al Paese il futuro che merita e del quale abbiamo tutti oggi più bisogno di ieri.